Virus e democrazia: i dilemmi della biopolitica

La paura sembra essere il collante principale delle società del XXI secolo ed alimenta le spinte autoritarie e antidemocratiche: il virus è in qualche modo l’ultimo capitolo di questa saga degli orrori che sta minando le fondamenta della convivenza civile.

Se dovessimo collocare politicamente il coronavirus non avremmo alcuna difficoltà. Il virus è fascista e nello sforzo di contenerlo e di arrestarlo siamo diventati anche noi un po’ fascisti.

Il filosofo Antonio Rinaldis

Per comprendere la natura autoritaria del virus è utile rifarsi a Lo Stato d’assedio, un testo teatrale di Albert Camus, nel quale il filosofo francese fornisce una potente e profetica anticipazione dei meccanismi totalitari che l’epidemia di Peste impone ai cittadini di Cadice. Nel testo di Camus la Peste prende possesso della città e impone un regime violento e omologante, nel quale tutti gli abitanti sono costretti a conformarsi alle direttive del morbo, che diventa il tiranno incontrastato della città spagnola, trasformata in una cupa caserma, in cui dominano ordine e disciplina. Nella finzione teatrale la Peste impone comportamenti conformisti e predispone lo stato d’assedio, nel quale ogni libertà individuale viene sistematicamente negata: prima della Peste le persone vivevano e morivano a caso, senza regola, ora con il nuovo governo hanno imparato a morire in maniera razionale.

Questo sembra il tratto fascista dello stato d’assedio, che il filosofo Agamben definisce stato d’eccezione, come quel regime in cui le ragioni della nuda vita, della vita biologica, diventano preminenti rispetto alla vita sociale, e dunque il bion prevale sulla politeia; in quel contesto i diritti, le libertà fondamentali vengono formalmente mantenute, perché la cornice costituzionale è intatta, ma nella realtà, proprio a causa dell’eccezione, vengono sospese. È un fenomeno che si è ripresentato più volte nella storia recente delle democrazie: lo stato d’eccezione è stato un espediente per forzare i limiti del potere sovrano e per imporre una legislazione emergenziale che esautorava la società civile e rafforzava l’esecutivo.

Si deve fare in modo che l’emergenza sanitaria non produca un’emergenza democratica e per questo motivo occorre riaffermare pienamente il senso del vivere, che non è la semplice sopravvivenza biologica, ma l’esistenza umana che è inscindibilmente legata alla rete di relazioni, di incontri, di dialogo con gli altri, di partecipazione attiva, nella presenza effettiva e non nella distanza rarefatta del digitale.

Ma c’è una tendenza ancora più radicale, una sorta di fiume carsico che attraversa le società europee e che Michel Foucault ha messo in luce nei suoi studi sulla follia e sulla sessualità; si tratta delle spinte in direzione del controllo degli individui da parte del potere politico, attraverso la creazione di sistemi disciplinari sempre più raffinati e pervasivi. Un esempio è rappresentato dalle pratiche che sono state istituite per arginare le ricorrenti epidemie di peste che hanno devastato l’Europa dal XIV secolo in avanti: mentre i lebbrosi venivano esiliati, espulsi dal corpo sociale per inseguire il sogno di una comunità pura dal contagio, la risposta alla peste è l’intensificazione del controllo, della schedatura e della separazione degli uomini, che è il fondamento di un certo assolutismo politico e ideologico.

Lo stato d’eccezione prefigura quindi una società ordinata e controllata, che deve arginare non soltanto la diffusione del contagio, ma è il pretesto per una microfisica del potere, per mezzo della quale la vita viene sottoposta a un sistema capillare di rigidi controlli, accanto all’atomizzazione delle relazioni sociali. Controllo e separazione delle vite sembrano essere la tentazione del potere sovrano di fronte alla pandemia e di questo occorre parlare. Non deve infatti sfuggire il pericolo che abbiamo di fronte: come si legge in Clean, il fortunato romanzo dello scrittore americano Glenn Cooper, il virus cancella le coscienze e le rende servili, impotenti di fronte a qualsiasi forma di autorità, i comportamenti individuali subiscono una inquietante trasformazione per diventare eterodiretti, omologati, senza alcuna possibilità di critica. Il virus rende conformisti e lo stato d’eccezione non ammette eccezioni.

Come si vede il problema che l’attuale emergenza impone investe la storia stessa dell’Occidente: perché l’esigenza legittima della Cura, nei suoi molteplici aspetti, sanitario, educativo e penale, è inscindibilmente legato all’imposizione di rigidi sistemi di controllo e di punizione?

La domanda diventa ancora più drammatica nell’attuale contesto, in cui lo sviluppo della tecnica rende possibili e praticabili sistemi di controllo delle vite individuali su larga scala. In buona sostanza la politica, che è il modo in cui gli uomini organizzano la loro vita sociale e collettiva rischia di trasformarsi in biopolitica, anche alla luce del fatto che, come si legge in Spillover, il profetico saggio di Quaddam, nuove e ricorrenti ondate pandemiche investiranno il pianeta nei prossimi decenni. La biopolitica impone nuovi dilemmi, inauditi, per molti aspetti, primo fra tutti quello già ricordato, fra nuda vita e vita umana pienamente realizzata: il virus non ha mostrato, come banalmente si potrebbe ritenere, la fragilità della condizione umana, l’esposizione alle malattie e lo spauracchio della morte, bensì la contingenza delle libertà e dei diritti fondamentali, in altre parole, la debolezza della democrazia, che non può essere considerata un fatto accertato e consolidato, ma come scriveva Camus, è un valore che deve essere difeso, una democrazia a venire, in continua evoluzione, che però vive nel pericolo ricorrente di essere risucchiata da tendenze autoritarie e totalitarie.

La domanda diventa ancora più urgente perché l’epidemia virale e la conseguente emergenza sanitaria si collocano al termine di una lunga serie di eventi traumatici che hanno scosso le certezze delle società occidentali, che hanno dovuto frettolosamente archiviare il mito della fine della storia e del trionfo del capitalismo. Le speranze che avevano segnato la fine del secolo scorso sono state bruscamente contraddette da una serie di eventi, primo fra tutti l’11 settembre, che hanno reso i cittadini europei e americani sempre più insicuri e fobici. Terrorismo, crisi economiche croniche e strutturali, catastrofe ecologica si sommano in un intreccio perverso e rendono il futuro quanto mai incerto e spaventoso. La paura sembra essere il collante principale delle società del XXI secolo ed alimenta le spinte autoritarie e antidemocratiche: il virus è in qualche modo l’ultimo capitolo di questa saga degli orrori che sta minando le fondamenta della convivenza civile.

In crisi è anche la fiducia ottimistica nella scienza, nella sua capacità di leggere il mondo nella luce della Verità. Questi mesi hanno dimostrato che il mito di una scienza infallibile che ha dominato gli ultimi secoli è infondato: le dispute accese fra gli scienziati, siano immunologi o virologi ha mostrato che il re è nudo, perché la scienza certifica con esattezza solo ciò che conosce, ma è totalmente disarmata di fronte all’ignoto, al nuovo, all’imprevisto. Nel tracollo della scienza avrebbe dovuto riemergere la capacità di guida e di governo della politica, che però troppo spesso si è defilata e si è assistito a un mortificante balletto fra indecisionisti, che rimandavano a esperti e tecnici l’onere e la responsabilità delle scelte. La conseguenza è un ulteriore scadimento del ruolo e della funzione dell’ars politica, come tecnica del governo delle cose e degli uomini.

Preoccupante, nel clima di sfiducia attuale, appare il referendum sul taglio dei parlamentari, che rincorre gli umori dell’antipolitica, senza minimamente preoccuparsi di intervenire sui meccanismi perversi della selezione del personale politico, dei criteri con cui vengono selezionati e delle competenze richieste per deputati e senatori.

Il coronavirus è una realtà ampiamente certificata dai dati numerici, dalla sua diffusione globale, dalle vittime che la malattia ha seminato, ma, una volta riconosciuta l’emergenza sanitaria, è altrettanto importante sbrecciare il muro di unanimismo che ha caratterizzato il dibattito politico e culturale dopo le prime misure

Nel disorientamento generale si sono così fatti sentire i teorici del cupio dissolvi, gli sfascisti che strumentalizzano l’emergenza sanitaria nella speranza di incrementare il proprio consenso elettorale.

Deve essere infatti chiaro che tutto quello che è stato detto non implica alcun negazionismo becero e nemmeno la sottovalutazione della forza epidemica del virus. Il coronavirus è una realtà ampiamente certificata dai dati numerici, dalla sua diffusione globale, dalle vittime che la malattia ha seminato, ma, una volta riconosciuta l’emergenza sanitaria, è altrettanto importante sbrecciare il muro di unanimismo che ha caratterizzato il dibattito politico e culturale dopo le prime misure di chiusura assunte dal governo Conte. Una riflessione critica sui provvedimenti e sulle ombre che gravano sulle nostre libertà individuali è necessaria anche per sottrarre alla propaganda della Destra la difesa di valori come la libertà individuale, che vengono utilizzati in maniera strumentale, svuotati del loro significato sociale, concepiti in senso individualistico e privatistico. Se le soluzioni della Destra sono demagogiche e superficiali, non è sufficiente il richiamo a un generico senso di responsabilità per dissipare i dubbi che una parte non irrilevante dell’opinione pubblica nutre nei confronti dei provvedimenti che si stanno attuando. È un equilibrio difficile, tra senso del bene comune e difesa dei diritti della persona e non si può liquidare la questione come se si trattasse di un intralcio alla rigida ineluttabilità di decisioni imprescindibili. Si può essere responsabili e critici, e la vigile attenzione del pensiero non è un lusso, ma una sentinella feroce che deve arginare le derive plebiscitarie.

Si tratta in definitiva di scardinare un pregiudizio molto radicato che è quello secondo il quale il paradigma della Cura sia circoscritto al distanziamento sociale, all’isolamento, alla frantumazione della polis. Si deve fare in modo che l’emergenza sanitaria non produca un’emergenza democratica e per questo motivo occorre riaffermare pienamente il senso del vivere, che non è la semplice sopravvivenza biologica, ma l’esistenza umana che è inscindibilmente legata alla rete di relazioni, di incontri, di dialogo con gli altri, di partecipazione attiva, nella presenza effettiva e non nella distanza rarefatta del digitale.

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