Orbán a Milano: le ragioni per non lasciarlo tutto a Salvini

L’interesse e le polemiche suscitate dall’incontro milanese tra il primo ministro ungherese Viktor Orbán e il vicepremier Matteo Salvini, dovrebbero quantomeno destare qualche domanda su chi sia in realtà il politico che governa ininterrottamente l’Ungheria dal 2010, e su quanto sia opportuno, soprattutto per i cattolici democratici e popolari, lasciare che sia solo il segretario della Lega ad appropriarsene politicamente. Perché sotto una cattiva reputazione costruita ad arte dai media, c’è uno dei pochi esempi rimasti in Europa di giusto mix tra pubblico e privato in economia, da sempre patrimonio dei partiti socialdemocratici e democristiani.

Non è dunque un caso che il premier magiaro sia uno dei bersagli preferiti dai media, che sono in pesante e continuo conflitto di interessi con i santuari del potere economico-finanziario transnazionale, e di certa intellighentia lontana dal popolo.

Una massiccia campagna di odio e di discredito nei confronti dell’Ungheria ha avuto inizio nel 2010, allorquando gli elettori magiari scelsero per il loro Paese una via diversa per affrontare la crisi economica, da quella che volevano loro imporre gli organismi economici internazionali. Il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea avevano disegnato per l’Ungheria un futuro basato essenzialmente su due punti: politiche austeritarie e deflattive, compensazione della conseguente svalutazione del lavoro con ondate di manodopera-schiava di migranti provenienti dalla rotta balcanica, per lo più di religione musulmana.

Dal momento del “gran rifiuto”, avvenuto nel 2010 con l’elezione di Viktor Orbán sono iniziati gli attacchi a questa piccola democrazia danubiana in modo non meno pesante di quelli dei carri armati sovietici del 1956, tanto cari al venerabile Giorgio Napolitano. Nei salotti e sui media radical-chic cominciò la messa alla gogna di Viktor Orbán. Con grande disonestà intellettuale questi viene spesso paragonato al presidente turco Erdoğan, lui sì un pericoloso autocrate, sfiorando il ridicolo, perché tutti sanno che l’Ungheria al pari della Grecia, è la nazione europea meno tenera nei confronti del “sultano” di Ankara, che ha invece nella Merkel la sua principale alleata europea.

Il castello di menzogne costruito attorno a Orbán è tale che recentemente persino l‘ambasciatore francese a Budapest Eric Fournier, epurato all’istante per queste sue dichiarazioni, non ha potuto far a meno di definire l’Ungheria attuale “un modello” e di denunciare il virus della magiarofobia che sta contagiando le opinioni pubbliche dell’Europa occidentale.

False e fantasiose sono poi le accuse di antisemitismo: l’Ungheria di Orbán è alleata di ferro di Israele. Entrambi gli Stati sono uniti nel contrastare il pericoloso speculatore americano-ungherese di origini ebraiche George Soros, perseguito in mezzo mondo, autore di una storica razzia ai danni dei contribuenti italiani nel 1992, e che meriterebbe di esser fermato all’istante appena mette piede sul suolo italiano anziché esser stato ricevuto a Palazzo Chigi lo scorso anno dall’allora premier Gentiloni, in maniera davvero sconcertante e irrispettosa verso il popolo italiano vittima dello spregiudicato finanziere.

Orbán è tutt’altro che un politico di estrema destra. Il suo partito, Fidesz che ha rivinto le elezioni dello scorso 8 aprile con ben il 49,5 %, è cristiano-social-conservatore e appartiene al Ppe, mentre il partito di estrema destra ungherese si chiama Jobbik, ha preso il 23% e sta all’opposizione: eppure tutti sono convinti che sia Orbán l’estremista: prodigi della disinformatia!

Ma vediamole queste “colpe” che il mainstream imputa al premier ungherese.

Orbán ha, come Putin in Russia, per prima cosa estinto il debito con il Fondo monetario nel 2013, sotto condizione della chiusura della sede Fmi a Budapest. Nel contempo ha escluso ogni interesse del proprio Paese ad avvicinarsi all’area Euro.

La crisi economica, scoppiata nel 2008 con i subprime americani, aveva colpito l’Ungheria soprattutto sul versante dei mutui sulla casa, erogati da banche estere e spesso in valuta straniera. L’accettazione di ulteriori prestiti del FMI, come pure l’ancoraggio alla Zona euro, avrebbe consegnato il patrimonio immobiliare (il 90%delle famiglie ungheresi detiene la proprietà della casa in cui vive), gli assets strategici del Paese alle banche straniere. Orbán ha evitato la bancarotta dello Stato e di moltissime famiglie, il pignoramento del Paese come invece è accaduto alla povera Grecia. E attualmente il Paese danubiano vive un nuovo boom del mercato immobiliare.

Insomma, se non ci fosse stato Orbán oggi si avrebbe un Paese malandato in più a far compagnia al depredato Paese ellenico. Non è un caso che, nel contempo, anche la piccolissima Islanda colpita dalla crisi, dopo aver valutato la cura da cavallo proposta da Bruxelles vincolata a una futura adesione all’Ue, abbia rifuggito come la peste tale ipotesi e sia oggi in piena ripresa.

Ripresa promettente (quella ungherese è il doppio della media europea, anche grazie ai fondi europei di cui beneficia più di altri Paesi, circa 30 miliardi di euro negli ultimi 6 anni), pur fra immancabili luci e ombre, di cui gode anche l’Ungheria dopo 8 anni di governo Orbán che ha rifiutato di cadere nella trappola del debito, scegliendo invece di potenziare la propria domanda interna, con politiche espansive che hanno aumentato il lavoro e migliorato le condizioni di vita della classe media: meno ai banchieri per dare di più ai ceti popolari, peccato capitale in questa Europa di Maastricht, che fa rivoltare nella tomba i Padri fondatori.

La bussola di Orbán è andata in direzione contraria a quella seguita dall’Italia: ha riportato il controllo dello Stato ungherese come maggior azionista nel campo dell’energia, delle banche e delle telecomunicazioni, investendo 1000 miliardi di fiorini (circa 3 mld di euro) per riacquistare la proprietà pubblica nei settori strategici prima privatizzati. Noi ci stiamo forse arrivando ora, a prezzo della tragedia di Genova. Ha attuato la gestione non profit della tariffazione pubblica, agevolando le fasce sociali più deboli (idea lanciata anche in Italia, sulla quale però il terzo settore non ha creduto abbastanza, e pure contrastata dalla sinistra di governo, organicamente legata al capitalismo della riscossione di pedaggi e bollette).

Fin qui i gravi “crimini” del “Victator” di Budapest (cosi apostrofato dalle piazze amiche di Soros) in campo economico.

Accenno solo, per concludere (ma meriterebbe un discorso a parte), all’altro caposaldo della politica di Orbán: la difesa della famiglia e dell’identità nazionale cristiana della sua patria e dell’Europa e il conseguente rifiuto dell’ideologia immigrazionista.

Ha imposto una tassa straordinaria alle multinazionali per finanziare con 500 miliardi di fiorini un vasto programma di politiche a sostegno della natalità e della famiglia. Ha contribuito al controllo delle frontiere dell’Ue verso i Balcani investendo quasi 300 miliardi di Fiorini. Ed è per questo che non vuole, insieme al Gruppo di Visegrád, concorrere alla suddivisione delle quote di migranti, ritenendo che l’Ungheria abbia già ampiamente fatto la propria parte in materia di immigrazione.

Ma, mentre sul piano economico, le politiche di Orbán costituiscono un interessante e valido esempio di politiche socialdemocratiche, neo-keynesiane, simili a quelle praticate in Italia nelle migliori stagioni riformiste e che sono ridiventate oggi quanto mai attuali, le politiche di Orbán riguardo all’immigrazione, al di là della contingenza, pongono questioni enormi. Esse vanno ben oltre la sua piccola Nazione, riguardano tutti gli europei e fanno tremare i polsi: fra una generazione si potrà ancora parlare di Europa, intesa come continente in cui esiste qualcosa di significativo – la classe media – fra le élite e le plebi diseredate? Vi sarà qualcosa che la distingua dall’Asia o dall’Africa? Vi sarà ancora il cristianesimo in Europa? I conflitti etnici e religiosi, già oggi frequenti in vasti territori dell’Europa occidentale, dalla Francia alla Svezia, la renderanno simile alla Bosnia, al Libano, alla regione caucasica, in quanto a stabilità?

Sono domande gigantesche che paiono richiedere una storica assunzione di responsabilità da parte delle classi dirigenti nella direzione di un’etica della responsabilità, che comporta la messa in conto di perseguire il bene comune, di tutti e di ciascuno, storicamente possibile anche dovendo sopportare la contraddizione di mai facili scelte sui mali minori.

Il conflitto tra l’essere un buon cristiano e un politico responsabile non è mai stato così alto e lacerante come sul tema dell’immigrazione. D’altra parte anche i nostri Pastori, che sono maestri anche nel discernimento, sanno la fine che fanno le crociate dei bambini, a fronte di precisi piani miranti alla distruzione dell’identità europea, e il carattere illusorio di ogni posizione e scelta storica che si creda come unica e non mediata traduzione possibile del Vangelo nella dimensione storica.

Forse la colpa più grave di Orbán è quella di aver richiamato tutti i popoli e i cittadini europei a tu per tu con il proprio futuro. Un futuro che si può ancora cambiare prima che si trasformi in destino o in tragedia.

Per questo i cani da guardia del progetto globalista, del potere assoluto del dio-denaro sul mondo e sulle persone, ci impongono di odiare e aborrire il “modello ungherese”, quando invece, soprattutto sul piano delle politiche economiche costituisce un interessante laboratorio da guardare con attenzione.

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