Pombeni-Formigoni-Vecchio: Storia della Democrazia Cristiana

“Storia della Democrazia cristiana” (Il Mulino) di Paolo Pombeni, Guido Formigoni e Giorgio Vecchio, non è solo il racconto della lunga vicenda dello scudo crociato, dalla sua nascita, nel 1943, quasi in coincidenza con la caduta del fascismo, alla sua fine, mezzo secolo dopo. Perché parlare della Dc significa anche ripercorrere la trama della società italiana dal dopoguerra agli anni Novanta. Passare cioè in rassegna l’evoluzione che vide l’Italia – dopo le rovine della guerra – cambiare volto con una crescita tumultuosa, trasformandosi da nazione agricola a Paese industriale. Il tutto lasciandosi alle spalle la dittatura fascista per approdare nel novero delle grandi democrazie europee.

E in questo cammino la Dc è stata, nel bene e nel male, lo snodo centrale del nostro sistema politico, forte di un consenso che nel corso dei decenni toccò il punto più basso solo nel 1992 (ultime elezioni cui partecipò), scendendo al 29,6 per cento. Percentuale che per buona parte delle attuali forze politiche rappresenta una soglia quasi irraggiungibile.

Partito di ispirazione cristiana ma nel pieno rispetto della laicità; favorevole all’economia di mercato corretta però da un incisivo ruolo dello Stato; visione sociale marcatamente solidarista; orizzonte europeo per superare il tragico virus nazionalista. Questa fu la Dc per mezzo secolo. Una forza di centro che guardava a sinistra. Non sul piano politico ma su quello sociale, nell’idea di includere nella vita del Paese i ceti subalterni e più svantaggiati.

Due – all’ingrosso – le tendenze interne: una linea riformista, propugnata dalla sinistra, e una visione più conservatrice, sostenuta dall’ala moderata. La saldatura tra queste due anime, in nome dell’unità politica dei cattolici, costituiva l’essenza stessa dello scudo crociato: partito di mediazione, chiamato già tra le proprie file a trovare mille accomodamenti.

E poi, altro che partito personale come quelli odierni, con il nome del leader (si fa per dire) che campeggia addirittura sotto il simbolo. La Dc era una formazione collegiale, dove a nessuno era consentito di porsi come “uomo solo al comando”. Certo, vi erano figure di notevole ed indiscusso rilievo come De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti ma la vera forza del partito stava nel suo retroterra di amministratori locali, nel legame con il territorio – era l’epoca delle preferenze e non delle liste bloccate – e nell’interlocuzione con i corpi intermedi: dalle organizzazioni agricole al sindacato, alle rappresentanze del commercio. Impareggiabile la capacità di raccordarsi con i diversi segmenti sociali, cercando di trovare un accettabile equilibrio tra i tanti interessi in gioco.

Più articolato e complesso il rapporto con le altre forze politiche. Mai però improntato alla volontà di un’egemonia assoluta. E infatti nel 1948, pur disponendo della maggioranza assoluta in Parlamento, la Dc preferì dar vita ad una coalizione con le formazioni laiche (Pri, Pli e Psdi) anziché governare in solitario. Dopo gli anni del centrismo, prese forma, tra non pochi ostacoli, la svolta a sinistra con il Partito socialista. Netta chiusura invece, verso il Partito comunista, per ovvie ragioni internazionali, e verso la destra missina e monarchica, nonostante alcune spinte vaticane che vedevano di buon occhio un franchismo in versione nostrana.

La caduta del Muro di Berlino, provocò anche uno scossone nella Dc. Con la fine del pericolo sovietico venne meno quella funzione di diga anticomunista dietro cui larga parte dell’elettorato conservatore si era riparato per decenni. Senza quello spauracchio, quei ceti intimamente reazionari tornarono a destra. Ma alla conclusione della parabola democristiana contribuirono anche Tangentopoli, che decapitò buona parte della sua classe dirigente, e l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria che, a differenza del sistema proporzionale, obbligava a scegliere tra destra e sinistra. Alternativa esiziale per un partito fisiologicamente portato a stare al centro: luogo della sintesi e non della contrapposizione.

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