Bassetti, evangelizzare in un tempo ferito

Gianni Bottalico e Gualtiero Basetti

Il presidente della Cei Gualtiero Bassetti, in una foto d’archivio del 24 febbraio 2014, appena nominato cardinale, incontra Gianni Bottalico.

La scelta di Papa Francesco di indicare alla guida della Conferenza Episcopale Italiana, proprio Sua Eminenza il cardinal Gualtiero Bassetti, appare densa di significato. Non solo perché sottolinea l’opzione per le periferie, per i testimoni della fede nella solidarietà, come lo è il cardinal Bassetti che ha conosciuto bene un grande maestro nel servizio ai poveri come don Lorenzo Milani, e che si è formato nella tradizione del cattolicesimo sociale fiorentino, nata con Giorgio La Pira e proseguita con il cardinale Silvano Piovanelli che è stato suo maestro. Ma perché soprattutto prepara la Chiesa italiana ad un cammino arduo ed impegnativo. Lo ha ricordato ai vescovi senza giri di parole il Pontefice: adeguare la missione della Chiesa nel mondo di oggi, significa “essere servi della vita in questo tempo ferito”. Lo stesso Papa che al Regina Coeli non ha esitato a definire come martiri i cristiani trucidati su un autobus in Egitto. La gerarchia avverte con maggiore chiarezza del laicato, in gran parte adagiato sulla visione dominante, i prossimi epiloghi storici di decenni di ritiro della politica dalle proprie responsabilità, di decisioni prese ormai senza più il criterio della sostenibilità del vivere per tutti. Si va verso un cammino stretto, in cui la missione della Chiesa attraverserà ferite sociali crescenti, in cui occorrerà, se si vuole esser testimoni credibili, imparare a condividere con i moltissimi che hanno poco, che non hanno voce, che sono, pur in un sistema democratico, marginali nelle decisioni politiche.

I cristiani dovranno farsi trovare pronti a dare testimonianza della loro fede, in forme nuove ed anche attingendo dalla tradizione. La chiesa si troverà in prima linea nel riallacciare legami di comunità in una società che si frammenta, che smarrisce il senso del destino comune della nazione. Siamo un Paese in qualche modo immunizzato dagli eccessi del nazionalismo, ma la domanda sul senso della comune appartenenza ad una nazione e ad una patria più ampia che è l’Europa, in un tempo in cui gli stati nazionali e le istituzioni politiche, anche quelle internazionali, vengono scavalcati da poteri transnazionali che non tutelano il popolo e che si oppongono ad una equa ripartizione della ricchezza, non appare affatto priva di significato. La Chiesa in Italia dovrà confrontarsi con una società composta da pochissimi ricchi, senz’altro propensi ad una filantropia ostentata e tutt’altro che disinteressata, ma non a riforme miranti ad una maggiore giustizia sociale. E dovrà confrontarsi con un ceto medio in decadenza, alle prese con scarsità di lavoro e retribuzioni non dignitose, senza più di fatto basilari diritti sociali che pure sono garantiti dalla Costituzione, e che si sente tradito dalla propria rappresentanza politica. Cosa potrà fare una Chiesa fedele al Vangelo, che è Vangelo degli ultimi e Giudizio per gli epuloni del nostro tempo, per spezzare l’egemonia culturale del “dio-denaro” non dipenderà solo dalla gerarchia, ma anche dalla capacità del laicato di raccogliere la sfida. Servono lavoratori, intellettuali, organizzazioni sociali, politici cattolici capaci di essere fedeli al popolo, di smettere di considerare come un valore, ciò che in realtà giova solo alla speculazione finanziaria, anche se è esaltato dai media; capaci di proporre un’altra scala di valori più compatibili con la fede, capaci di realizzare con tutte le persone di buona volontà una effettiva autonomia culturale e di giudizio che si traduca in una progettualità politica per l’avvenire.

In questo tempo ferito la Chiesa avverte distintamente prove che solo la tiepidezza della fede non ci fa sentire come prossime alla vocazione cristiana. Le ferite aperte in questi anni con l’ingiustizia economica, crescente e strutturale, e con le guerre che hanno devastato interi Paesi, se non affrontate con decisione e con un cambio deciso di paradigma, saranno destinate ad approfondirsi. Per questo serve quella sorta di sana improvvisazione di cui ha parlato il nuovo presidente della CEI, che non significa affatto pressapochismo, ma capacità in senso profetico di rivedere la scala delle priorità alla luce delle sfide del proprio tempo.

La stessa sana improvvisazione, ad esempio, che fece pronunciare la notte di Natale del 2008, all’allora arcivescovo di Milano, cardinal Dionigi Tettamanzi delle parole concrete per tutelare famiglia e lavoro ai tempi della crisi, aprendo gli occhi a molti che forse erano rimasti alla narrazione dei “ristoranti pieni”, che oggi è sostituita dai “segnali di ripresa”. Il cardinal Bassetti sin dall’inizio del suo mandato da presidente ha dato un messaggio chiaro ai decisori, alle persone che hanno in mano il destino del nostro popolo: quello di uscire dai loro tecnicismi per prendere atto di una realtà che ha bisogno di essere affrontata sostituendo l’idolo del denaro con la priorità della giustizia e della fraternità. Un invito capace di cambiare le priorità anche nel laicato, nel popolo di Dio, e di suscitare nuove speranze per il Paese.

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