Catastrofi e prevenzione: quando diventeremo adulti?

Nei 60 e passa anni della mia vita ho avuto solo tre occasioni per sperimentare in concreto tecniche di prevenzione nei confronti di diversi tipi di catastrofe, che vorrei rapidamente raccontare, proprio mentre si conclude la giornata di lutto nazionale per le vittime della Sardegna martoriata, perché non ci si limiti ai mugugni o alle maledizioni, ma ci si inoltri nell’impegnativo terreno della responsabilità.

La prima volta è stata nei primi mesi del 1968, negli Stati Uniti, dove ero per un anno in una famiglia dell’Oregon, all’interno di un programma di scambio dell’American Field Service (Intercultura, in Italia). La mia scuola (Clackamas HS) prevedeva obbligatoriamente un seminario di due giorni per spiegare cosa fare in caso di attacco atomico. C’è poco da sorridere, eravamo in piena guerra fredda, gli Stati Uniti combattevano la guerra del Vietnam… Ci mostrarono filmati che illustravano gli effetto di esplosioni nucleari sulle persone (i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki) e sulle abitazioni e l’ambiente (gli esperimenti effettuati nel deserto del Nevada). Impressionanti. E poi ci spiegavano cosa fare per ridurre al minimo i rischi di contaminazione nei raccolti e nella falda acquifera dovuta al fallout, così come ci insegnavano cosa fare in caso di nausea, vomito, perdita di sangue dal naso, senza farsi prendere dal panico.Il vero fine era probabilmente soprattutto propagandistico, ma nondimeno i miei compagni erano consci della gravità della questione e facevano tesoro delle spiegazioni scientifiche che venivano fornite. Molti di loro sarebbero poi finiti al fronte e avrebbero sperimentato sulla propria pelle l’orrore della guerra.

La seconda volta, vent’anni dopo, nel 1988, all’Università di Stanford, dove ero per un anno sabbatico nel programma John Knight Fellowship for professional journalists. In questo caso il “nemico” era il Big One, il catastrofico terremoto che pima o poi sconvolgerà la costa occidentale degli Stati Uniti, lungo la faglia di Sant’Andrea. Tutti lo sanno, e si preparano svolgendo periodiche esercitazioni, con serietà e pignoleria. In tutte le scuole, le università, gli uffici, le fabbriche della California ci sono microstrutture autogestite che permettono a ciascuno di sapere esattamente cosa fare e cosa aspettarsi in caso di terremoto.

La terza volta, qualche anno fa, all’interno del giornale in cui lavoravo. Una esercitazione anti-incendio, con tanto di sirena, di sfollamento della redazione, di raduno sul marciapiede sottostante. Pensata e proposta con grande serietà da parte della struttura tecnica, attuata con superficialità e addirittura irrisione da parte di moltissimi colleghi, alcuni dei quali si erano già distinti per essere stati severi critici nei confronti dei “colpevoli ritardi” degli interventi delle autorità all’indomani di ogni evento catastrofico, naturale o causato direttamente dall’uomo.

Aggiungo un’altra notazione che viene dall’Olanda, dove vive un mio figlio con moglie e tre bambini. Ho appreso che – poiché i “Paesi Bassi” prevedono che prima o poi, con l’innalzamento del livello dei mari, arriverà una inondazione catastrofica – tutti devono imparare a nuotare e c’è un patentino che va conquistato frequentando un corso di nuoto che prevede, come prova finale, lo stare a galla e riuscire a nuotare con indosso giacca a vento, pantaloni e scarponcini. In caso di inondazione – dicono – non ci si può permettere il lusso di avere qualcuno che non sa cavarsela in acqua, rendendo più complicate le operazioni di soccorso e di recupero. Tutti prendono il patentino in età scolare, pena l’interdizione dalle piscine pubbliche. E’ una cosa seria, attuata con fatica e consapevolezza da tutti.

E allora mi chiedo: quando riusciremo a crescere nella consapevolezza e nella responsabilizzazione? E’ vero, si è lasciato che il territorio venisse “mangiato” da interventi speculativi, e quindi la responsabilità prima è di chi non ha vigilato o vietato di costruire in zone a rischio (quando penso alla zona attorno al Vesuvio, dove anche le vie di fuga in caso di eruzione sono ormai ostruite da abitazioni abusive…). E’ vero, la camorra ha lucrato sull’interramento di scorie inquinanti (ma che gente è questa che condanna i propri stessi figli a morire di cancro?!?…). Eppure mi chiedo quando cominceremo a capire che la prevenzione è innanzitutto una mentalità? E che essa prevede in primis cura amorevole nei confronti della natura (o del creato, se si vuole). Quando diventeremo adulti nei confronti di noi stessi e dei nostri concittadini?

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