La fine di bin Laden e la guerra di Libia

L’uccisione di Osama bin Laden, è andata in scena con una copertura mediatica enorme, almeno pari a quella che aveva contribuito a crearne il mito negativo di principe del terrore. Non altrettanto si può dire per alcuni non secondari dettagli di cronaca. Ma questo è affare che riguarda solo gli operatori dell’informazione, specie quelli occidentali, così ligi a raccontare la realtà prodotta dagli “attori della storia” piuttosto che a sprecare tempo e spazi sui soliti banali fatti. Per i servizi di intelligence e per il presidente Barack Obama si stratta invece di uno straordinario successo, destinato ad avere delle ripercussioni di vasta portata.

L’eliminazione di bin Laden è stata definita una riformattazione della situazione mondiale. La concezione della “guerra tra civiltà” è chiaramente stata abbandonata dall’Amministrazione americana, sebbene alle due guerre occidentali in Paesi musulmani, l’Iraq e l’Afghanistan, si sia aggiunta la nuova guerra in Libia.

Se la fine del re dei terroristi sancisce il tramonto della dottrina dello scontro fra civiltà, ci si deve chiedere cosa seguirà. Ed è in questo nuovo quadro che va inserita la questione del conflitto in corso in Libia. Gli Stati Uniti sono ora costretti, dall’andamento della loro economia e dalla progressiva sostituzione del Dollaro come valuta di riferimento negli scambi internazionali, a prendere atto di non avere più le risorse necessarie per continuare con l’ ”esportazione della democrazia”, ma di dover condividere la loro leadership globale con le nuove potenze emergenti, con le quali sperano di trovare di volta in volta nuovi punti di convergenza positivi, come anche solo mere complicità nel gestire situazioni di reciproca convenienza.

Paesi ed aree del mondo ricche di risorse naturali o situate in posizione geografica strategica possono fatalmente essere lasciate ai margini dello sviluppo che interessa sia l’Occidente che le nuove grandi economie di questo secolo. La divisione, la frammentazione ed una permanente instabilità di queste nuove aree di caos rischiano di importare poco nei giochi dei nuovi equilibri mondiali. L’indebolimento dell’entità statuale in Iraq e in Afghanistan, da disastro potrebbe persino tramutarsi, per taluni interessi, in un’indecente un’opportunità, così come la divisione del Sudan, le guerre in Costa d’Avorio, Somalia, Libia.

La guerra fra civiltà rischia dunque di essere soppiantata da una strategia nella quale la superpotenza militare americana svolge un ruolo più defilato, ma con rischi maggiori di conflitti, di esodi di popolazioni e di un caos alla fine non più contenibile.

In questo senso, il conflitto esploso in Libia rischia di tramutarsi nel primo conflitto di questa nuova epoca. Le ragioni umanitarie c’entrano ben poco (anzi, il disastro umanitario della guerra amplifica solo quello della repressione brutale della rivolta fatta da Gheddafi, imitato da Siria, Yemen, Bahrein, talvolta anche con il supporto di contingenti francesi in aiuto alla repressione) e l’attivismo militare della Francia unisce questa nuova strategia alle lusinghe di convenienze economiche (il petrolio, le infrastrutture, una diversa gestione di quel gruzzoletto da 200 miliardi dei fondi sovrani libici) e di convenienze elettorali in vista delle presidenziali dell’anno prossimo.

Si poteva e si doveva risolvere questo conflitto per altre vie, come incessantemente hanno chiesto grandi Paesi emergenti come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) i quali, come ha osservato Romano Prodi (Il Messaggero del 17 aprile 2011) «hanno sottolineato con chiarezza a tutto il mondo che la loro comune opposizione all’intervento militare in Libia non è stato un evento occasionale ma un’occasione per ribadire la diversità di una politica che “esclude in ogni caso l’uso della forza”».

Questa è anche la stella polare della politica estera italiana che sin dai tempi di Enrico Mattei ha inteso instaurare su basi di pari dignità il rapporto con i Paesi detentori di ricchezze naturali. Ma è anche lo spirito di quell’articolo 11 della Costituzione, di cui in questa come in altre occasioni non è affatto chiaro se ne rispettiamo la lettera perché non sappiamo più comprenderne lo spirito. Il “ripudio” della guerra è qualcosa di più forte ed impegnativo che la semplice patente internazionale per la legittimità del ricorso alla guerra. E pure sul rispetto della Carta Onu nella fattispecie non mancano le ragioni di dubbio e di discussione (la violazione della sovranità, l’intervento in una guerra civile, la mancanza di prove di progetti di genocidio, per citarne alcuni).

Il nostro Paese ha preferito l’avventurismo francese alla posizione defilata e saggia della Germania. Non solo per grave responsabilità del governo ma Berlusconi, ma anche per una opposizione del Partito Democratico e di un partito di ispirazione cristiana come l’Udc, che esprimendo in parlamento un voto favorevole all’intervento militare italiano in Libia, si sono dimostrati incapaci di interpretare una diversa sensibilità, diffusa se non maggioritaria nel Paese, e con questo hanno perso una ulteriore occasione per porsi in sintonia con il Paese e per proporsi come alternativa credibile.

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