Un seminatore accorto e generoso per far rifiorire la solidarietà a Milano

«Cari amministratori, vorrei che tutte le componenti della nostra città si sentissero con voi responsabili di Milano così che possiate essere sempre meno “gestori” della cosa pubblica, meno sorveglianti dello status quo, meno rappresentanti di una parte e non di altre, ma sempre più strateghi del futuro della nostra città e del suo benessere complessivo. Nessun amministratore si consideri solo in questa missione: chi si occupa disinteressatamente del bene degli altri sappia che gode della stima mia personale, della comunità cristiana e di tutti i cittadini. Fare della nostra città un luogo coeso, solidale, comunicativo, aperto a tutti, dove il terreno è liberato dalle aridità, dai sassi e dai rovi che ne soffocano la fertilità, dove poter realizzare i progetti di vita più veri credo sia non un’utopia, ma un’impresa possibile e affascinante. Con la collaborazione di tutti, però. Nessuno escluso».

Non ha deluso nemmeno quest’anno il cardinale arcivescovo Dionigi Tettamanzi, nel suo “discorso alla città” della vigilia di Sant’Ambrogio. Utilizzando la parabola del seminatore ha fornito indicazioni serie e forti a chi vuole ascoltarlo.

Il seminatore – come ricorderà chi ha familiarità con il Vangelo – fa cadere il seme  su diversi terreni, alcuni immediatamente fertili, altri più problematici. Non diversamente dalla città di Milano, ovviamente. E Tettamanzi spiega: ” Quella che Gesù ci offre non è l’immagine di un contadino distratto o inesperto, bensì quella di un uomo saggio, lungimirante, misericordioso, aperto al futuro e carico di speranza. È un seminatore al cui giudizio nessun terreno è escluso dalla possibilità di dare frutti. Perché seminare solo nei campi già fertili? Perché negare la semente al viottolo posto tra i terreni buoni? Perché non gettarla anche tra le pietre e tra i rovi?”. E aggiunge: ” Di quale terreno voglio parlare? Non mi riferisco ai contesi e costosi terreni edificabili o alle suddivisioni geografiche della Città. Voglio guardare ad altro. Il terreno in cui gettare il seme buono e nuovo – della giustizia, della carità, della pace – è il cuore, la mente, il vissuto quotidiano personale, familiare, sociale degli abitanti vecchi e nuovi di Milano. Dentro ciascuna persona e in ogni realtà che compongono la nostra Città, sono presenti un’area fertile e una che resiste al buon seme. Il Vangelo ci dà speranza: anche la parte infeconda della Città, se premurosamente e attentamente coltivata, può giungere a dare frutto”.

L’elenco dei “terreni fertili” è interessante: c’è la componente imprenditoriale quando non produce solo per sé “ma anche per dare a tutti vita, speranza, dignità e autonomia. Penso a chi crea e offre posti di lavoro, a chi pone competenze a servizio di altri in campo amministrativo, economico, culturale, nell’ambito del servizio alla salute, della risposta al disagio e al bisogno. Mi riferisco a chi costantemente si impegna nel creare legami nuovi, nel promuovere un tessuto associativo vivace, nel sostenere l’integrazione dei nuovi cittadini”. E ancora: “È fertile il terreno di chi ha potuto costruire solidamente la propria famiglia e ha saputo affrontare coraggiosamente le inevitabili avversità che la minacciano. Lo è anche per gli anziani che possono e sanno rendersi utili ad altri, che sono accolti e custoditi dalla famiglia o da strutture idonee. Lo è per i giovani che seriamente costruiscono il proprio futuro, vivono in armonia le proprie amicizie, scelgono esperienze di gratuità e di servizio che li aprono agli altri e al mondo. Laboriosa, strategica e silenziosa è l’opera di numerosi ricercatori che nelle nostre Università, negli Ospedali e Centri di ricerca affrontano e risolvono i problemi che gravano sulla vita umana. Preziosi sono tutti coloro che si impegnano per l’educazione delle nuove generazioni e si prendono cura dei malati e degli emarginati. Fecondi si è non quando si ricerca una crescita egoistica e finalizzata ai propri interessi, non quando si trattengono per sé patrimoni economici e culturali per sfruttarli a proprio esclusivo vantaggio, ma quando tutto questo viene posto al servizio altrui”.

E  il cardinale invita: “Sosteniamo e facciamo conoscere questo patrimonio di bontà, di giustizia, di operosità presente nel nostro tessuto cittadino!”.

Ma i tempi difficili non sono passati: “Oggi ci misuriamo con gli effetti difficilmente quantificabili della crisi economica, una tempesta che ha distrutto molto di ciò che faticosamente era stato costruito in passato e che, soprattutto, tende ad allargare il fossato tra il terreno fertile e quello incolto, tra chi ha più possibilità e chi già ne aveva meno. La nostra Città, inserita pienamente nei processi della globalizzazione, appare come un terreno che cambia in continuità e dove le distanze e le differenze si modificano con rapidità”. E allora: “Sia preoccupazione costante degli amministratori la cura di rigenerare sempre il terreno fertile, mantenendolo connesso con la totalità delle situazioni, senza cedere alla tentazione di ignorare gli altri contesti sociali solo perché meno produttivi, meno ricchi, portatori di minori interessi e occasioni di visibilità. Sia benedetta la solidarietà concreta, operosa, generosa presente nella nostra Milano non come semplice espressione di un aiuto occasionale bensì come intelligente attenzione diretta ad ampliare gli spazi della fertilità. Non c’è autentico sviluppo che non sia strettamente associato al bene di tutti. L’amministratore saggio è chiamato a incrementare la componente positiva della Città e, al tempo stesso, a prendersi cura di chi ha più bisogno di aiuto, della Milano che “non ce la fa”. È interessante rilevare come il testo evangelico citato metta in luce le positività iscritte anche nel terreno ricoperto di rovi: non è di per sé infecondo, né destinato all’infecondità. Occorre solo liberarlo dai rovi perché possa lasciar crescere il buon seme fino alla sua maturazione. Ma qual è l’aspetto della nostra vita cittadina paragonabile alla porzione di terreno in cui la semente “cadde in mezzo ai rovi e i rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono”? Possiamo dire che ai rovi corrispondono quelle molteplici, differenti e sempre nuove forme di disumanizzazione – povertà, malattia, disagio – che impediscono all’umanità buona di fiorire. Penso alle famiglie che – a causa del reddito non sufficiente, dei servizi pubblici non sempre disponibili, accessibili ed efficaci – avrebbero bisogno di un vicinato attento e generoso, di una rete parentale o associativa per gestire al meglio lo svolgersi della vita quotidiana. Penso a chi si trova ad affrontare la malattia cronica o degenerativa di un congiunto, il disagio psichico, la presenza di un anziano non autosufficiente, un figlio disabile: non è l’evenienza in sé a rendere “soffocante” l’esistenza, bensì la carenza di aiuto, il trovarsi da soli ad affrontare queste difficili situazioni. La mancanza delle risorse economiche per la perdita del lavoro, sommata ad altre situazioni di fragilità, può far crollare le persone e le famiglie, impedendo un’esistenza serena. Intervenire in favore di chi sta pagando gli effetti più pesanti della crisi non significa solo aiutare chi è colpito dalla povertà, bensì investire sul futuro di migliaia di persone e di interi territori della città. Un compito che nessuna istituzione, realtà sociale o di volontariato, può svolgere da sola: non è possibile limitarsi a invocare l’aiuto delle amministrazioni locali, demandare l’intervento allo Stato centrale, delegarlo al terzo settore o alle attività caritative della Chiesa: ciascuno deve fare la propria parte”.

E il riferimento alla esperienza ormai biennale del “Fondo famiglia lavoro” diventa quindi inevitabile. La vera e unica novità creativa messa in piedi nel vasto territorio della Diocesi, prima ancora che altri, in altre parti del Paese, si mobilitassero e rilanciassero iniziative analoghe.

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