John McCain: il sogno di un’America aperta al mondo

John McCain, sconfitto da Barack Obama nella corsa alla Casa Bianca nel 2008, e scomparso nei giorni scorsi ad 82 anni, apparteneva a quella categoria di leader politici che, pur dotati di tutte le doti necessarie: carattere, idee e visione da statista, non riescono a coronare la loro carriera approdando ai massimi vertici della responsabilità pubblica. Si fermano un gradino prima dell’apice, non riuscendo a convincere gli elettori o a disporre di sufficienti appoggi nella classe politica, per conseguire il traguardo più ambito, la carica più prestigiosa.

Emblematico il caso di Amintore Fanfani, più volte, e con successo, presidente del Consiglio e del Senato, ma che non è riuscito, pur tentandovi in due occasioni (1964 e 1971) a salire al Quirinale. Carica che, certamente, avrebbe riempito nel migliore dei modi, essendo indiscusse la profonda cultura e la notevole capacità politica. Eppure, al momento decisivo, fu sempre bocciato dai suoi stessi colleghi di partito. Caso analogo in Francia, quello del gollista della prima ora, ed ex capo della Resistenza contro i nazisti, Jacques Chaban-Delmas, primo ministro e più volte presidente dell’Assemblea nazionale. Alla morte di Georges Pompidou era considerato il suo naturale successore all’Eliseo ma la sua candidatura fu stroncata da un gruppo di gollisti dissidenti che puntarono su Valery Giscard D’Estaing. Scelta di ottimo livello, considerato il valore di quest’ultimo, ma che penalizzò per sempre Chaban che avrebbe meritato di giocarsi sino in fondo la sfida della presidenza. Stessa sorte in Germania per il governatore della Baviera e più volte ministro della Difesa, Franz-Josef Strauss che non divenne mai cancelliere pur avendovi concorso in più occasioni, rimanendo sempre confinato nel suo amato lander. D’altronde, sino ad ora, nessun bavarese è asceso alla Cancelleria, quasi ad indicare una sorta di diffidenza del resto della Germania verso quella sua provincia meridionale, spesso riottosa nell’accettare le consegne politiche provenienti un tempo da Bonn ed oggi da Berlino.

Difficile dire cosa sia mancato a questi leader, per lo più audaci, brillanti e carismatici, per concludere al vertice la propria vita politica. Filo conduttore che, forse, unisce i leader che hanno mancato l’obiettivo più grande e l’esser stati delle personalità un po’ atipiche rispetto al sentire del partito di appartenenza. Fanfani nella Dc era spesso osteggiato per un suo presunto autoritarismo, Chaban venne ritenuto troppo progressista dal suo elettorato di centro-destra mentre Strauss pagò le sue posizioni ultraconservatrici, in una Cdu che ormai guardava al centro.

Lo stesso accadde a McCain, repubblicano atipico con forti venature sociali, spesso controcorrente nelle sue scelte. Non gli fu sufficiente essere un eroe di guerra, prigioniero in Vietnam per sei anni, per conquistare definitivamente i favori dell’establishment repubblicano, più propenso a puntare su candidati meglio allineati sulle tradizionali posizioni del partito. Divenne senatore dell’Arizona ma la Casa Bianca restò un tabù: nelle primarie del 2000 i repubblicani gli preferirono George W. Bush, forte dell’appoggio della lobby petrolifera, mentre nel 2008, di fronte ad Obama, era ormai troppo in là con gli anni per conquistare la presidenza, in una sfida contro un candidato tanto più giovane e portatore di un inequivocabile messaggio di cambiamento.

Sin dal comparire di Donald Trump sulla scena politica, McCain si mostrò un suo risoluto avversario e in quest’ ultimo anno si è spesso contrapposto alle sue scelte; impedendo, ad esempio, la cancellazione della riforma sanitaria di Obama. I due non si sono mai piaciuti e d’altronde niente accomunava il volubile magnate newyorkese al valoroso militare sopravvissuto alle prigioni vietnamite. Il suo sogno era un’America senza muri e aperta al mondo, perché riteneva che quella fosse la storica vocazione del suo Paese. Quel Paese che ha saputo servire con onore e con coraggio nei migliori anni della sua vita.

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