18 aprile 1948: una scelta di campo

<<Credevo che piovesse non che grandinasse>>. Con questa metafora meteorologica si espresse Alcide De Gasperi, quando venne a conoscenza dello straordinario risultato del 18 aprile 1948. Un successo clamoroso che andava ben al di là di qualsiasi aspettativa. Alla fine si contò una percentuale di voto alla Dc del 48 per cento che servì per conquistare 305 su 574 seggi alla Camera e 131 su 237 al Senato: risultati mai più conseguiti da alcuna forza politica nella vita repubblicana.

Quelle del 18 aprile erano le prime elezioni dopo la nascita della Repubblica e l’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio di quello stesso anno. La Guerra fredda si stava facendo sentire, una Cortina di ferro – come disse Winston Churchill – aveva davvero diviso l’Europa, da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico. In quel clima, su pressione americana, comunisti e socialisti furono presto estromessi dal governo. Il leader del Pci, Palmiro Togliatti, dinanzi alla mossa degasperiana non batté ciglio, convinto com’era di poter cogliere una solenne rivincita alle successive elezioni previste, per l’appunto, nella primavera del 1948. Non aveva fatto però i conti col Paese reale e con quel famoso detto “piazze piene, urne vuote” che, allora come nei decenni successivi, sempre ha caratterizzato le vicende elettorali della sinistra in Italia.

A dare una mano a De Gasperi, sull’effettivo rischio dell’avvento di una dittatura comunista in caso di un successo dell’alleanza di sinistra, ci si misero di mezzo, un mese prima delle elezioni, anche gli avvenimenti cecoslovacchi con l’assassinio del ministro degli Esteri, Jan Masaryk, ad opera di agenti stalinisti. Era ormai evidente che quelle di aprile non sarebbero state normali elezioni in cui si decide semplicemente da chi esser governati per i successivi cinque anni, ma una vera e propria scelta di campo: la libertà contro il totalitarismo, la religione cristiana contro l’ateismo elevato a sistema. In gioco entrò anche la Chiesa, tramite la vasta e capillare rete dei Comitati civici guidati da Luigi Gedda. Dall’altro lato della barricata venne invece costituito il Fronte popolare, tra Pci e Psi con l’effige di Garibaldi al posto della falce e martello, un’alleanza voluta soprattutto dai socialisti che vedeva i comunisti assai più tiepidi.

Poi, finalmente, il 18 si votò e, ad urne chiuse, vi fu il trionfo della Dc. La sinistra uscì tramortita dallo scontro. L’unica consolazione la ebbe il Pci perché i suoi candidati, grazie alle preferenze, prevalsero nettamente su quelli targati Psi, facendogli così assumere la guida della sinistra italiana, ruolo che avrebbe mantenuto nei decenni a venire. Compressi tra i due blocchi, la destra monarchica e i partiti laici ottennero solo le briciole. E se questi ultimi ebbero il timore che la vittoria democristiana potesse preludere ad un rigurgito clericale, la realtà si incaricò di smentire qualsiasi fosca previsione. La Dc seppe gestire egregiamente il suo clamoroso successo senza pretendere di stravincere, schiacciando i propri alleati. Non a caso, poche settimane dopo, toccò al liberale Luigi Einaudi, salire al Quirinale come Presidente della Repubblica.

De Gasperi formò poi una maggioranza con socialdemocratici, liberali e repubblicani, all’insegna di una comune responsabilità di governo. Iniziavano gli anni del centrismo con una delle migliori classi dirigenti di sempre. Da ambienti vicini al Vaticano giunsero non poche suggestioni clericali e conservatrici per fare della Dc una sorta di blocco franchista in salsa italiana. De Gasperi però fece sempre muro contro questa ipotesi, nel segno di una piena fiducia nella laicità e nelle istituzioni democratiche, con la Dc a presidio della libertà contro ogni totalitarismo. Partito di centro che guardava a sinistra – per la promozione sociale delle classi subalterne e una loro piena integrazione nella vita democratica – come era inscritto nella sua vocazione di grande forza popolare.

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