Secessioni

Il mondo continua a essere percorso da inquietudini indipendentiste e secessioniste. In linea di massima, si tratta di una tendenza antistorica e illogica, perché le sfide che l’umanità si trova di fronte sono ormai di portata globale, per cui diventa imperativo unire le forze, piuttosto che rannicchiarsi all’interno di confini falsamente sicuri. Uragani, terremoti, tsunami e riscaldamento globale se ne fregano delle frontiere tracciate dagli umani, e colpiscono –e colpiranno sempre più forte- ovunque le condizioni climatiche o geomorfologiche saranno tali da determinare tali fenomeni. Questo per quanto riguarda le forze della natura, ma anche per quanto riguarda le questioni umane le scissioni indipendentiste viaggiano in direzione sbagliata.

Mentre infatti tensioni politiche, pulsioni scioviniste o interessi localistici puntano a secessioni nazionali prive di fondamento storico o di logiche geopolitiche, in campo economico la tendenza è esattamente opposta. Da anni ormai, nel cosiddetto “libero mercato”, le grandi multinazionali non fanno altro che accorparsi, assorbire imprese, acquisire le aziende che operano negli stessi settori per eliminare la concorrenza. In poche parole, concentrano ricchezza e potere in poche mani, sempre più forti. Mentre all’opposto gli Stati si indeboliscono a causa di dispute regionali che, a volte, sfociano inopinatamente in richieste di indipendenza.

Una tendenza pericolosa, che aggrava un fenomeno già individuato sul finire del secolo scorso: territori senza capitali si ritrovano alla mercé di capitali senza territorio, con le conseguenze socio-economiche che già oggi tutti noi tocchiamo con mano. Da un lato, le multinazionali che imperversano ovunque, strozzando l’economia locale (pensiamo, per esempio, alla preponderanza dei grandi centri commerciali che ha prodotto una brusca contrazione del commercio al dettaglio), dall’altro i continui tagli allo stato sociale, dovuti al fatto che sempre più spesso nelle casse statali calano i gettiti fiscali dovuti dalle grandi aziende, impegnate da anni a trasferire le sedi in Paesi a bassa tassazione, o peggio ancora a far risultare i redditi in qualche paradiso fiscale, grazie a società di comodo o transazioni finanziare che consentono l’elusione fiscale, reato assai complesso da individuare e sanzionare. Queste fughe di capitali, unite alle delocalizzazione di imprese verso Paesi con minor costo della forza lavoro o con normative più permissive, sono una parte fondamentale della crisi industriale che tuttora stiamo vivendo, al di là dei recenti segni di ripresa che, tuttavia, non sembrano incidere in maniera positiva sulla gran massa delle persone.

Va da sé che, in caso di secessioni, Stati ancora più piccoli rispetto a multinazionali sempre più grandi non potranno che accentuare questo squilibrio, aumentando ulteriormente quella corsa al ribasso alla quale già assistiamo, con le varie nazioni che cercano di rendere i propri territori appetibili ai potentati economici offrendo condizioni fiscali agevolate, finanziamenti statali e compressione dei diritti dei lavoratori. Alle grandi corporation non resta che scegliere dove posizionare le proprie attività produttive a seconda della convenienza, salvo poi trasferirsi altrove in presenza di condizioni migliori, abbandonando territori e lavoratori in caduta libera. Situazioni che fanno parte ormai della cronaca quotidiana e dovrebbero indurre ad accantonare le fantasie indipendentiste, puntando piuttosto a compattare l’unità nazionale e sovranazionale, nel rispetto delle singole specificità e legittime rivendicazioni, in un modello federalista che consenta opportune autonomie all’interno di un perimetro più grande.

Per capirci, solo un’Europa unita e coesa è in grado di imporre a colossi come Amazon, Google e Facebook di versare la quantità di imposte dovuta realmente, anziché far risultare profitti minimi e pagare cifre ridicole in tasse, a fronte di fatturati miliardari. Le singole nazioni potrebbero fare ben poco, anzi rischierebbero di entrare in concorrenza fra loro per attrarre la benevolenza di questi colossi e convincerli a stabilirsi entro i propri confini. Discorso ancor più eclatante in caso di frazionamenti nazionali, come rischia di succedere in Spagna, dove la dirigenza catalana ha prodotto una frattura pericolosa e per certi versi autolesionista.

La pretesa della Catalogna di diventare indipendente è priva di basi storiche e geografiche, ma anche culturali, sociali, infrastrutturali: il suo territorio è indissolubilmente connesso, dal punto di vista fisico e socio-economico, al resto della Spagna. Le ragioni dello strappo sono principalmente politiche e fiscali, con i governanti locali in cerca di visibilità e gloria effimera e una parte della popolazione che non sopporta di vedere le proprie tasse prendere la via di Madrid per poi essere dirottate verso zone meno sviluppate della nazione iberica. Piuttosto che all’afflato patriottico di un popolo vessato, sembra di assistere a un movimentismo di corto respiro e a interessi di bassa lega.

Ancor più di bassa Lega (in questo caso con la “L” maiuscola, per individuare la Lega Nord) appaiono le circostanze che hanno portato all’indizione del referendum indipendentista del Lombardo-Veneto, entità regionale un tempo annessa al defunto Impero Austro-ungarico. Una retromarcia storica determinata dai pluridecennali sproloqui e deliri di Umberto Bossi, fautore dell’indipendenza di una “Padania” mai esistita sotto il profilo storico e geografico, un’invenzione politica che gli ha procurato un solido elettorato di riferimento, che per anni lo ha votato consentendogli di sedere ininterrottamente al Senato, percependo un cospicuo stipendio da parlamentare, corrisposto da quella Roma da lui definita “ladrona”, ma della quale non ha mai rifiutato i denari.

I due referendum, catalano e “padano”, sono di fatto l’invenzione di classi dirigenti miopi, affette da una visione politica neo-medievale, irrealizzabile in un’epoca ormai improntata  alla globalizzazione, dove non è più possibile trincerarsi dietro frontiere e dogane, mura e fossati. Una follia antistorica che tuttavia ha abbagliato molte persone, spaventate proprio da una globalizzazione selvaggia che ha incrinato certezze e prospettive, complice anche una dirigenza politica che ha supinamente accettato richieste e imposizioni dei potentati economici, diventando complice di quella ideologia neoliberista che, nell’arco di trent’anni, ha convogliato una fetta rilevante della ricchezza e del benessere diffusi fra la piccola e media borghesia verso concentrazioni capitalistiche mai viste nella storia umana, con l’uno per  cento più ricco dell’umanità che controlla oltre la metà delle risorse mondiali.

È questo impoverimento progressivo e apparentemente ineluttabile che spaventa i cittadini. Ed è la sempre più evidente adesione a questo modello insostenibile da parte della maggioranza delle forze politiche che spinge gli elettori verso l’astensione o peggio verso i partiti populisti e xenofobi, che propongono – anzi urlano- false soluzioni. Le pulsioni indipendentiste sono il massimo grado di queste spinte populiste, l’illusione di potersi salvare blindandosi nel proprio orticello. La Catalogna lo sta già scoprendo a proprie spese, con la fuga delle sedi delle grandi aziende da Barcellona, città protagonista di una rinascita prodigiosa che rischia ora il declino a causa della follia indipendentista.

Lo stesso discorso vale per il ricco lombardo-veneto, al quale comunque non gioverebbe dover rinunciare al marchio universalmente famoso del “made in Italy” per sostituirlo con un misconosciuto “made in padania”. Il governo italiano non deve ripetere gli errori e gli eccessi dell’esecutivo di destra di Madrid, che ha cercato di soffocare la libera espressione del voto popolare con una pesante azione di polizia. Piuttosto, dovrebbe convincere i cittadini del ricco nord-est che restare italiani è un vantaggio e un privilegio. E confidare nel fatto che il buonsenso prevalga. In caso contrario, si annuncia una stagione molto complicata, e le cronache da Barcellona ce ne forniscono un pallido esempio.

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