C’era una volta l’America

C’era una volta l’America. Una Terra Promessa dove ogni uomo poteva avere la possibilità di coronare i propri sogni. Una grande democrazia inclusiva che offriva a chiunque le migliori opportunità per raggiungere quello che veniva, giustamente, definito “il sogno americano”.

Oggi non è più così. Dopo mesi di campagna elettorale rabbiosa e costantemente sopra le righe, i primi giorni di presidenza Trump si sono mostrati perfettamente in linea con quanto visto in precedenza. Contrariamente a quanto sostenuto da molti, non c’è alcuna differenza fra il candidato e il Presidente: Donald Trump rimane uguale a se stesso, anche ora che si è insediato alla Casa Bianca. Un esito largamente prevedibile e paventato che ha trovato conferma il giorno stesso dell’insediamento, con un discorso inaugurale, da parte del neo-eletto Presidente, ancora una volta polemico e accusatorio, come se fosse ancora in campagna elettorale, anziché alla guida della nazione più potente del mondo.

Se il buongiorno si vede dal mattino, saranno quattro anni terribilmente lunghi, potenzialmente forieri di sconvolgimenti geo-strategici e socio-economici destinati a pesare a lungo sui destini degli Usa e, conseguentemente, del mondo intero. Ci auguriamo di sbagliarci e di essere smentiti, ma l’impressione netta è che la prepotenza e l’arroganza delle classi dominanti siano salite direttamente al potere, nel senso che Donald Trump non è semplicemente attento agli interessi delle lobby e delle èlite: ne fa direttamente parte, ancor più di quanto non fosse già successo all’epoca di George W. Bush, presidente appartenente a una dinastia di petrolieri. Che differenza enorme con Bill Clinton, il ragazzone dell’Arkansas figlio di un padre alcolizzato, o con Barack Obama, il nero figlio di un immigrato, che dal nulla erano arrivati alla Casa Bianca con un percorso fatto di borse di studio in Università prestigiose e militanza sociale e politica cresciuta per gradi fino ai massimi vertici.

Ora gli Usa sono guidati da un magnate che ha accumulato una fortuna con l’edilizia, ma soprattutto con intrallazzi economici poco chiari, probabilmente viziati da colossali elusioni fiscali, un tizio che sbraita contro tutto e contro tutti e che, con ogni probabilità, dobbiamo rassegnarci a considerare come l’ultimo Presidente degli Stati Uniti d’America, nonché il primo presidente degli “stati divisi d’america”, scritto minuscolo, per rendere plasticamente la grandezza perduta. Analizziamo quanto avvenuto finora, per provare a capire cosa ci aspetta nel prossimo futuro.

Partiamo prendendo in considerazione proprio lui, Donald Trump, come persona, o sarebbe meglio dire personaggio. Perché si sa che le idee camminano sulle gambe delle persone, quindi in un certo modo le due cose si rispecchiano. È un miliardario abituato a vivere nel lusso sfrenato, debordante nella pacchianeria, circondato da donne bellissime irraggiungibili ai più, fra le quali la splendida moglie Melania. Un uomo dunque che secondo i normali standard vive una vita invidiabile, alla quale probabilmente aspira gran parte di quell’elettorato maschile e bianco che ha contribuito in misura determinante al suo successo. Con questi presupposti, dovrebbe essere un uomo felice. Eppure, è ben raro vederlo sorridere. Sia in campagna elettorale che una volta raggiunto il potere, in lui domina un’espressione truce e rancorosa, sembra che a guidare ogni sua mossa siano rabbia e ostilità. È pensabile che un presidente così possa portare il benessere ai propri concittadini?

Secondo la sua narrazione, gli Stati Uniti lasciati da Barack Obama sono un Paese allo sbando, impoverito all’interno e umiliato nel suo ruolo internazionale. In realtà, Obama ha raccolto gli Usa all’indomani della crisi economico-finanziaria innescata dal fallimento Lehman Brothers e, con generosi finanziamenti statali, ha contribuito a far ripartire l’economia, riducendo la disoccupazione ai minimi storici. Certo, per fare questo ha ulteriormente implementato il già stratosferico debito pubblico americano, gonfiato dalle guerre di Bush, ma si è anche preoccupato di migliorare l’offerta di servizi sociali, offrendo per la prima volta nella storia della nazione la possibilità per tutti di godere della copertura sanitaria. Una rivoluzione sociale significativamente egualitaria, che non ha caso –col pretesto dei costi elevati- è finita per prima nel mirino di Trump e della sua visione divisiva e verticistica di ciò che dovranno diventare gli Usa, la più grande ex-democrazia del mondo, dove chiunque potrà avere un’opportunità, tranne i sudamericani, gli islamici, i neri, le donne … e l’elenco potrebbe continuare.

Si dice poi che in ogni caso Trump è il Presidente votato dal popolo, che comunque in democrazia resta sovrano. Ma non è vero. Il “popolo” ha votato in maggioranza per Hillary Clinton, per quanto fosse una candidata antipatica e piena di difetti, espressione di un establishment con molte colpe: la rappresentante dei Democratici ha ottenuto quasi tre milioni di voti in più, e solo i complicati e farraginosi meccanismi elettorali e istituzionali statunitensi hanno ribaltato l’esito a favore di Trump. In tempi recenti era già successo ad Al Gore, sconfitto da Bush nonostante un numero di consensi superiore a livello nazionale: due casi emblematici che dovrebbero indurre la “più grande democrazia del mondo” a riconsiderare un sistema elettorale evidentemente non più in grado di rispecchiare la volontà popolare.

Ma tant’è, al momento questo discutibile sistema e l’insoddisfazione di ampi strati della popolazione hanno decretato la vittoria di un presidente che, come detto, ha fatto della rabbia e della prepotenza la cifra distintiva della sua campagna elettorale prima e della sua azione di governo ora. Cominciando appunto con l’eliminazione della copertura sanitaria per le fasce più deboli della popolazione, che erano appena state beneficiate dalla politica sociale inclusiva di Obama. Per proseguire con la messa in atto di un’altra promessa elettorale, la costruzione del Muro al confine col Messico. Proprio mentre Papa Francesco esorta a costruire ponti e non muri, la religiosissima America si muove in direzione opposta, riportando alla mente la Berlino del dopoguerra e la sua divisione in due, imposta allora dai laicissimi sovietici. Corsi e ricorsi storici. Ma se non bastasse il danno, ecco la beffa: perché con una prepotenza che probabilmente saremo costretti a rivedere in altre occasioni, Trump ha stabilito che i costi dell’opera saranno a carico del Messico e, nel caso quest’ultimo non fosse d’accordo, ha già minacciato di bloccare le rimesse dei sudati risparmi dei lavoratori messicani dagli Usa alle loro famiglie.

Un atteggiamento che configura quasi un’appropriazione indebita, esempio di come Trump intenda essere forte coi deboli e, specularmente, debole coi forti. Il neo presidente si è già prodigato nel far capire la sua grande sensibilità nei confronti della lobby petrolifera, di quella economico-finanziaria e del complesso militare-industriale con le nomine dei suoi ministri, in massima parte generali e manager multimilionari senza esperienze di governo. Atteggiamento confermato sia dai primi atti di governo, con l’autorizzazione alla costruzione di due oleodotti bloccati da Obama perché osteggiati dagli ambientalisti e, soprattutto, dai nativi americani, proprietari delle terre interessate dal progetto, sia dal negazionismo nei confronti dei cambiamenti climatici, una posizione antiscientifica ormai minoritaria, ma evidentemente ben inserita nei gangli del potere. Grandi aperture all’industria automobilistica, con sgravi fiscali e abbattimento delle normative anti-inquinamento, roba che ha fatto gongolare Marchionne, che già da tempo aveva spostato il baricentro dell’ex Gruppo Fiat negli Usa. Provvedimenti presi da Trump affermando che l’ambientalismo “ormai è fuori controllo”, sebbene millanti di essere lui stesso un ambientalista. Chissà cosa intende, forse che gli piace il verde dei campi da golf, o magari quello dei dollari, va a sapere.

A stretto giro, Trump ha deciso anche di “congelare” per 4 mesi l’immigrazione da 7 paesi a maggioranza islamica: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. A parte l’Iran, si tratta di Paesi interessati in varia misura da conflitti conclamati o striscianti, dai quali i profughi fuggono per motivi di sicurezza personale, cosa che lascia indifferente il presidente Usa, impegnato a suo dire a tenere eventuali terroristi fuori dal territorio nazionale. Stranamente, le restrizioni non riguardano gli amici petrolieri di Qatar e Arabia Saudita, grandi finanziatori dell’islam radicale e jihadista. Forse il Presidente non ricorda che, dei 19 attentatori degli attacchi terroristici dell’11 Settembre, ben 15 erano sauditi. Gli altri quattro provenivano da Libano, Egitto e due dagli Emirati Arabi Uniti, Paesi esclusi dal recente provvedimento preso in nome della sicurezza, con criteri che sfidano la logica.

Intanto, l’uomo che vuol “fare di nuovo grande l’America” ha già annunciato il disimpegno dalla Nato e da molti contesti internazionali, consentendo ai competitori globali di guadagnare terreno. Lo dimostra la presenza di una portaerei russa nelle acque del Mediterraneo, di fronte alla Cirenaica, ex zona di influenza italiana sulla quale Mosca sta allungando rapidamente le proprie mire. Ma questa è un’altra storia, ci sarà tempo per analizzare le ripercussioni strategiche mondiali innescate dal nuovo corso Usa.

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