“Madama Butterfly” nella prima versione inaugura la stagione della Scala

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Credit Brescia/Amisano Teatro alla ScalaRiccardo

 

 

 

 

 

 

Riccardo Chailly esalta la partitura di Puccini.

È passata poco più di una settimana dalla grande prima del 7 dicembre, con cui il Teatro alla Scala ha inaugurato la stagione con Madama Butterfly di Puccini. Sui giornali si è discusso a lungo sullo spettacolo trasmesso in diretta da Rai1, che così è tornata a scommettere sull’opera in TV proponendola in prima serata (con ascolti da record), assolvendo al suo compito di far cultura e non solo informazione ed intrattenimento. Anche on-line, sui social network, si è scatenato il solito dibattito fra i sostenitori del “mi piace” e i commenti positivi o negativi dei melomani sullo spettacolo e sulla parte musicale e vocale. Dopo aver assistito alla recita del 16 dicembre, torniamo su questo spettacolo scaligero per alcune riflessioni.

Per prima cosa confermiamo quello che è stato il successo riscosso presso il pubblico, che già alla prima del 7 dicembre aveva premiato tutti (salvo qualche isolato buu per il tenore) e sollevato l’opera dal ricordo di quel clamoroso fiasco scaligero che l’accolse il 17 febbraio 1904, quando venne travolta dalle contestazioni. Puccini non si perse d’animo; amava la sua creazione, quel soggetto che ammetteva di commuoverlo, ed era convinto in un riscatto che ci fu quando l’opera venne eseguita appena tre mesi dopo a Brescia, questa volta con grandi consensi. Prese però mano alla partitura e la sfrondò di alcune pesantezze. Senza scendere in dettagli, diciamo solo che le differenze fra la prima e le successive versioni appaiono evidenti a chi ben conosce Madama Butterfly; a partire dal primo atto, spogliato di alcune prolissità di vita familiare giapponese con cui la protagonista si presenta al cinico sposo americano, convinto da subito dalla superiorità della civiltà occidentale su quella orientale, derisa con sprezzante visione colonialista. Perciò c’è anche il ripristino del personaggio di Yakusidé, zio beone di Cio-Cio-San, la cui presenza crea efficace contrasto con il successivo ingresso dello zio Bonzo, che rinnega la nipote dinanzi a tutti i familiari. Ma soprattutto è la lunghezza del secondo atto (rispetto ai tre della versione, più volte riveduta dall’autore, che circola in tutti i teatri del mondo) a colpire: un’ora e mezza di musica senza interruzione, così da non dar sosta alla tensione drammatica, con un addio finale della protagonista che appare meno intensamente tragico sul piano vocale, con qualche sfogo in zona acuta in meno. Evidente è poi la mancanza dell’aria d’addio al “fiorito asil”, che sarà pure falso e ipocrita, ma dona comunque a Pinkerton una facciata di rimorso e riscatto umano, mentre nella prima versione il tenore esce di scena senza nessuna sfogo solistico e si limita a dire: “Sono stordito! Addio, mi passerà”, incurante così di ogni responsabilità nei confronti della consorte abbandonata, sposata solo per gioco.

Una storia, quella di Butterfly, che l’edizione ascoltata alla Scala, fortemente voluta dal maestro Riccardo Chailly nella revisione critica di Julian Smith già ascoltata nel 1982 al Teatro La Fenice di Venezia secondo il modello della prima esecuzione assoluta scaligera, rende la percezione dell’opera ancor più cruda. Certo la scelta è stata coraggiosa, come se si volesse riabilitare l’opera dal quello storico tonfo (alcuni sostengono organizzato a tavolino ai danni di Puccini) al quale però subito seguì il trionfo, come si è detto poc’anzi.

Allora perché proporre questa versione non più gradita dall’autore stesso? Forse per snobismo intellettuale? Certo che no. Se lo si è fatto è per confermare come nella parabola artistica del maestro Chailly ci sia un amore totale e profondo per la musica di Puccini; una volontà di indagine profonda, che si coglie in ogni particolare e rende la sua concertazione attenta a valorizzare anche quelle battute che l’autore cassò ritenendole sbagliate, ma che comunque sono parte integrante del suo percorso compositivo. Nella direzione di Chailly si coglie, insieme all’attenzione per i dettagli (come quella donata allo strumentale nipponico ben valorizzato in orchestra), il suono caldo e scuro che innerva il dramma, che costruisce al suo interno una tensione emotiva che contiene il lirismo e lo libera da ogni sentimentalismo, mai abbandonandosi a concessioni liberty nel primo atto e, nel secondo, costruendo il dramma della presa di coscienza dell’abbandono da parte di Butterfly passo a passo, con sottolineature sonore che esprimono il nascere dell’angoscia con trattenuta densità di suono, senza estetismi fuori ordinanza, ignorando quel puccinismo di maniera al quale molti direttori ci avevano abituati, per seguire un percorso di tenuta narrativa compatta, quasi un vulcano che al suo interno ribolle di una magma drammatico sempre consapevole di ciò che avviene sulla scena.

Se la sua direzione è tanto inquieta e scura nella premonizione incandescente della tragedia, lo spettacolo, per altro figurativamente esemplare di Alvis Hermanis, si muove alla maniera apposta. Utilizza, avvalendosi di preziosi costumi disegnati da Kristine Jurjane, un fluido succedersi di pannelli scorrevoli su strutture a più livelli che delimitano ambienti e fanno intravedere paesaggi nipponici da cartolina illustrata, immagini floreali, un giardino di alberi di ciliegi e peschi in fiore e tutto quanto evoca un Giappone oleograficamente raffinato e rituale, che tuttavia sacrifica ciò che più conta in quest’opera, ossia il dramma dell’abbandono, che deve vivere nella cura per una recitazione che in questo spettacolo scarseggia e lascia un po’ soli i personaggi in quadri figurativi dove taluni interventi coreografici di Alla Sigalova, per quanto eleganti, ignorano l’intima tensione che invece si percepisce nella direzione di Chailly. Solo l’apertura del secondo atto, con la forzata riduzione della casa di Butterfly ai modi della vita occidentale – dove la protagonista appare col viso truccato di bianco cero ma è vestita in nero, come fosse una donna di epoca vittoriana, e ha abbandonato ogni idolo giapponese a favore dell’americano Iddio, come attesta il quadro del Cristo appeso alla parete – sembra per un attimo dire qualcosa di nuovo, facendo percepire come Cio-Cio-San viva costretta negli angusti spazi di questa stanza credendosi forzatamente ciò che non è, né mai potrà essere, ossia una vera donna americana. Il rituale Jigai nel finale, consumato non in privato bensì drammatizzato come fosse una tragedia greca, è inopportuno perché Butterfly ha ripudiato le sue tradizioni proprio in nome dell’agognato sogno d’amore americano per lei impossibile; è ormai sola con se stessa e nessuno piange per lei, tantomeno dovrebbero farlo le geishe, che invece qui la circondano, la aiutano a preparare il cerimoniale di dolore versando sui volti imbiancati lacrime nere e si accasciano a terra insieme a lei dopo che si è recisa la gola. Tutto suggestivo, ma drammaturgicamente scorretto. Questi ed altri dettagli ancora rivelano uno spettacolo che per lo più punta alla bellezza distaccata delle immagini e non all’essenza del dramma. Una certa critica l’ha pertanto tacciato di filologia iconografica estetizzante senza reale sostanza registica, non considerando che l’allestimento è stato gradito da buona parte del pubblico perché ha mostrato di saper far cultura d’immagine rendendo la narrazione sempre chiara e limpida, appellandosi alla pittura di Hokusai, Hiroshige e Utamaro, di cui Milano offre proprio in questi mesi una splendida mostra sull’arte giapponese a Palazzo Reale (aperta fino al 29 gennaio 2017), e ispirandosi all’astratta stilizzazione del teatro Nō e Kabuki, alla sua sofistica e raffinata recitazione, suggestiva anche se congelata in una filosofia figurativa non facilmente applicabile al linguaggio musicale pucciniano. Tutto questo, per quanto bello da vedere, non ha certo aiutato i cantanti a rendere credibili i loro personaggi. Liana Aleksanyan, cantante armena di carriera svolta per lo più in Germania, ha sostituito, alla recita del 16 dicembre, l’indisposta Maria José Siri. In Italia era fino ad oggi sconosciuta, anche se dal suo curriculum si apprende che è stata più volte Butterfly sulle scene tedesche, ma anche al Teatro Colon di Buenos Aires, in un allestimento di Hugo de Ana. La voce di soprano lirico, di bel timbro, appare in natura luminosa e svettante, pur con qualche tensione in acuto per una tendenza a sfogare i suoni, anche nei centri, dove ricerca sonorità più dense. Talvolta le trova e la voce certo non fatica ad espandersi in sala con proiezione sonora ammirevole, seppure con risultati vocali un po’ disordinati, non sostenuti da una ricerca di colori perfettibile nel canto di conversazione. Ciò detto, la sua Cio-Cio-San si ammira per il temperamento che è sembrato mancare (valutando la ripresa televisiva) alla titolare del ruolo. Bryan Hymel, Pinkerton, è un tenore di importante carriera internazionale, in questa occasione apparso sotto le aspettative, un po’ greve e sommario nel fare della voce non solo una voce ma anche uno strumento di espressione capace di rendere la caratterialità sfottente del personaggio. Nulla da eccepire su Carlos Álvarez, Sharpless di lusso, di nobile impasto timbrico, così come bravissima Annalisa Stroppa, intensa Suzuki. Ruoli di contorno perfetti, con in bell’evidenza il magistrale Goro di Carlo Bosi, insinuante e subdolo in ogni respiro e accento di una voce in forma splendente e poi tutti gli altri: Nicole Brandolino, Kate Pinkerton, Costantino Finucci, Il principe Yamadori, Abramo Rosalen, Lo zio Bonzo, Leonardo Galeazzi, Yakusidé, Gabriele Sagona, Il Commissario imperiale, Romano Dal Zovo, L’Ufficiale del registro, Marzia Castellini, La madre di Cio-Cio-San, Maria Miccoli, La zia e Roberta Salvati, La cugina.

Una buona apertura di stagione, che ha visto Milano culturalmente coinvolta in molte iniziative che hanno fatto da corollario a questa Madama Butterfly, con la citata mostra a Palazzo Reale, un convegno di studi internazionale sull’opera e la mostra “Madama Butterfly, l’Oriente ritrovato” al Museo Teatrale della Scala (in corso fino al 28 febbraio 2017).

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