Salviamo quanto ci resta dell'”Ulivo”

Esisteva, al centro del Mediterraneo, una terra benedetta dove fiorivano gli ulivi. L’ulivo è una pianta di tradizione millenaria che ha cullato le civiltà intorno a quelle acque: cresce fino al limite del deserto e i suoi frutti, di cui praticamente non si scarta nulla, sono un contributo alimentare fondamentale per le popolazioni d’intorno. Ha due nemici, uno esterno, il gelo, ed un altro interno, il parassita (che, di fatto sarebbe anch’esso esterno, ma che lo mina insediandosi dentro di esso). Non a caso, a metà degli anni ’90, questo albero fu scelto come simbolo della più interessante iniziativa politica della cosiddetta seconda repubblica, “ l’ Ulivo”, appunto. Fu un contenitore, non esclusivo, di molte delle migliori culture riformiste italiane, dalla cattolica, alla socialista, a tante comunque generalmente democratiche: non era un partito, ma vi confluirono quel che ne restava di alcuni partiti e tante persone “dalla società civile”, che nei partiti non avevano mai militato. Arrivò a governare, ma prendendo a prestito una classe dirigente che, per lo più, derivava dalle vecchie formazioni politiche organizzate e che, neanche troppo lentamente, giunse a soffocarlo: chissà se fu più il gelo o furono più i parassiti?

Alcuni anni dopo, agonizzando un’ esperienza sostitutiva, ma senza la stessa passione, chiamata “l’Unione”, alcuni pensarono di costituire un partito che evitasse i guai che uccidono gli ulivi: mal gliene incolse, in quanto alcuni di quegli stessi fondatori vennero a loro vota ugualmente divorati, in tempi diversi, dalla loro creatura o dai suoi nipotini che, infine, risultarono esseri ibridi, solo lontani parenti di quella vivace stagione, ormai sempre più distante.

Fuor di metafora, quello che avrebbe dovuto essere l’erede dell’ Ulivo, il Partito Democratico, si trova oggi, dopo le recenti elezioni amministrative e in vista del prossimo referendum costituzionale, a correre il rischio di una precoce estinzione o di una sua profonda mutazione: al centro della modifica, ancora una volta, c’è la questione della validità o meno della sua classe dirigente. Qualche protagonista è cambiato, ma alcuni di essi sono rimasti poco oltre l’uscio (un po’ dentro e un po’ fuori, magari per interposte persone) e i nuovi, ma già vecchi del mestiere, che avanzano o che sono già avanzati, non sembrano in grado di garantire la continuazione dell’ispirazione iniziale, anche a causa di nuovi compagni di viaggio imbarcati nell’avventura, prevalentemente dei naufraghi provenienti da altre traversate fallite.

Il futuro di un Paese dipende da molti fattori, uno dei quali è la qualità della sua classe dirigente, politica, ma non solo. Quella che un tempo era una garanzia per governare e amministrare, l’esperienza, oggi sembra essere una causa ostativa e, talvolta, anche retaggio di passate disonestà. La mancanza di una storia alle spalle, per tanti potenziali amministratori, non ne fa temere la loro inesperienza, ma sembra essere il certificato di non aver già commesso dei danni. Recentemente un vescovo spagnolo spiegava la differenza tra il Partito Popolare e la nuova formazione di centro destra (Ciudadanos), così semplificando: vengono dallo stesso mondo, ma questi ultimi non hanno ancora avuto il tempo di essere stati corrotti. Diagnosi semplicistica, ma molto efficace, anche se certamente pessimista. Allora, dove può risiedere l’ottimismo, in nazioni in cui il non avere radici sembra essere un vanto? Nella speranza che, nella ventata di “nuovo”, prevalgano il cambiamento “positivo” prima e i buoni risultati conseguenti, poi (e non solo il fare piazza pulita dell’esistente, facendo di tutta l’erba un unico fascio); e che il residuo virgulto di ulivo sopravviva a gelo e parassiti, magari con iniezioni di gioventù, vera e competente, per il bene delle civiltà che gli esistono intorno.

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