Carlo Donat Cattin, una figura sempre attuale

A venticinque anni dalla scomparsa, avvenuta il 17 marzo 1991, merita fare qualche riflessione su Carlo Donat Cattin, leader Dc della corrente di Forze nuove e animatore della cosiddetta “sinistra sociale”.

Al centro della sua azione politica ci fu sempre il mondo del lavoro. Non a caso, nel 1969 fu uno degli estensori dello Statuto dei lavoratori, insieme ai socialisti Gino Giugni e Giacomo Brodolini. Statuto, conosciuto anche come legge 300 del 1970, che rappresentò il momento più alto raggiunto nel nostro Paese nella tutela della dignità delle persone sul luogo di lavoro. Per le sue posizioni intransigenti a difesa delle classi lavoratrici, anche scontrandosi duramente con l’universo imprenditoriale, fu ribattezzato il “ministro dei lavoratori”. Una nomea meritata, di cui andava orgoglioso.

Nella sua visione il lavoro diviene elemento fondante della nostra società e in questa prospettiva, le tutele dei lavoratori non sono mai un ostacolo allo sviluppo, come invece pare sostenere oggi una certa vulgata neoliberista, che in realtà ricalca semplicemente il peggior vetero capitalismo. Uno sviluppo autentico – al tempo stesso economico, sociale e civile – non può mai basarsi sulla compressione dei diritti di chi lavora. Anzi proprio l’estensione di questi diritti, in termini di stabilità dell’impiego, di salario dignitoso, di orari, per quanto possibile, rispettosi della vita delle persone, di tutele previdenziali, sono anche la misura di una vera ed autentica civiltà del lavoro.

In caso contrario si è dinanzi a un confuso, ed equivoco, straparlare di riforme e di riformismo, solo per giustificare scelte che penalizzano unicamente le fasce lavoratrici. E sappiamo bene che, molte volte, vengono spacciate per ineludibili esigenze di competitività, precise scelte di classe a favore dei potentati economico-finanziari. Basti pensare alla forbice retributiva tra operai e manager, che ha raggiunto livelli insostenibili, persino dal punto di vista della tenuta dell’impresa.

La questione posta da Donat Cattin, ed oggi più attuale che mai, era quella di dare al lavoro un decisivo ruolo nell’universo produttivo. E qui si innesta l’ampio, ed ancora inesplorato, percorso verso una maggior partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. L’idea che l’impresa, oltre una certa dimensione, debba far entrare i rappresentanti delle maestranze nelle sedi che presiedono ad alcune scelte gestionali. Principi avversati sia del capitalismo padronale, sia del sindacalismo di matrice marxista. Un’inedita coincidenza di intenti tra due estremi: tra chi punta sulla lotta di classe per cambiare i rapporti produttivi e chi, proprio da questo irriducibile antagonismo, trae la giustificazione per avere le mani libere sul luogo di lavoro.

In definitiva, Donat Cattin ci richiama ad una piena valorizzazione del lavoro, pietra fondante della nostra stessa democrazia, come inscritto del resto nel primo articolo della Costituzione. Cattolico rigoroso, segnato da un forte retroterra culturale che affondava le proprie radici nell’umanesimo integrale di Jacques Maritain, scelse di rappresentare la parte più debole del Paese, cercando di dar voce a chi altrimenti non l’avrebbe mai avuta.

A monte di questo impegno, una concezione della politica che doveva dare spazio alle esigenze e alla promozione degli strati sociali subalterni nella vita pubblica. I ricchi, affermava, non hanno bisogno della politica, mentre ne hanno estrema necessità i ceti popolari per veder tutelate le proprie istanze. Per questo difese sempre i partiti come canali di partecipazione dei cittadini.

Temeva che senza i partiti tornassero in auge i notabili del passato, le logiche elitarie, il censo come metodo di selezione. Qualcosa che fa pensare. Spesso dietro l’antipolitica, di questi tempi tanto di moda, si maschera la volontà dei ceti dominanti di chiudere spazi di democrazia. Cose che Donat Cattin, aveva intuito con decenni di anticipo.

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