La mutazione genetica delle banche

Lo scandalo delle quattro banche (Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e CariChieti) salvate dal fallimento a spese dei piccoli risparmiatori ha scosso non poco l’opinione pubblica italiana, sempre molto sensibile quando si parla di quattrini. E a inquietare gli animi ha contribuito non poco la strumentalizzazione politica della vicenda, cavalcata dall’opposizione per attaccare il Governo, che nella fattispecie ha avuto un comportamento decisamente poco cristallino, anzi piuttosto ambiguo, e sul quale pesano sospetti più o meno legittimi di conflitto di interessi.

Si tratta dell’ennesima sberla finanziaria che colpisce i risparmiatori, in un susseguirsi di crisi e scandali che ormai diventano sempre più frequenti, e per i quali è sempre più difficile rispolverare il mantra del “sono casi isolati, poche mele marce in un sistema sano”. La realtà è che il sistema è tutt’altro che sano, anzi naviga a vista sull’orlo del precipizio, tenendo come unica bussola di riferimento quella del profitto a ogni costo, senza strategie di lungo periodo, senza attenzione all’economia reale, senza rispetto per le esigenze di sicurezza dei risparmiatori, soprattutto senza scrupoli. Perché tanto poi, quando succede il patatrac, a pagare è sempre qualcun altro, in genere i piccoli investitori, oppure le finanze pubbliche, ovvero tutti noi in quanto contribuenti. È esattamente ciò che è successo con l’esplosione della bolla speculativa dei mutui subprime, scatenata nel 2008 dal crollo della banca d’affari Lehman Brothers, che in un gigantesco gioco del domino globale rischiava di tirare giù anche le altre banche, a loro volta esposte per cifre considerevoli. Per salvare il sistema, le autorità statunitensi hanno pompato dalle casse statali qualcosa come 7.700 miliardi di dollari (a fronte dei 700 previsti inizialmente) mentre l’Unione Europea, sempre con soldi pubblici, ha sborsato tra il 2008 e il 2011 4.500 miliardi di euro, equivalenti al 37% del Pil dell’UE.

Curiosamente, nessuno dei liberisti solitamente ostici agli aiuti di Stato e fautori del libero mercato e delle privatizzazioni ha obiettato a una tale “ingerenza” del pubblico nei bilanci delle banche private. E nessun pignolo burocratiche europeo (o di qualunque altro posto) ha preteso riforme del sistema, tagli di bilancio, politiche di austerità e sacrifici da parte delle dirigenze e delle élite finanziarie che avevano provocato questo disastro con comportamenti spregiudicati e rapaci, quando non decisamente illegali. In compenso la UE ha chiesto con fermezza tali misure draconiane agli stati membri, in particolare a quelli “periferici”, che le hanno applicate senza discutere (salvo rari casi, vedi Tsipras in Grecia) ai propri cittadini, per risanare i bilanci pubblici dopo che questi si erano ingrossati per ripianare i debiti delle banche. Le quali, appena rifinanziate, hanno anche preso a speculare sui debiti pubblici stessi, sfruttando il momento di debolezza e dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, che gratitudine e senso di responsabilità sono doti sconosciuti dalle loro parti, dove conta solo il business.

Il risultato è che gli Stati sovrani (?) che compongono la UE sono sempre più in difficoltà e in conflitto, e così pure i loro cittadini, sempre più disamorati dell’utopia europeista e impegnati a difendere, fra rigurgiti nazionalisti e derive populiste, il poco benessere residuo da una erosione inarrestabile. Anche a costo di prendersela con chi sta peggio e non ha colpa alcuna, come i migranti in fuga da guerre e povertà che, anche se naturalmente nessuno se lo ricorda, hanno iniziato a sbarcare in massa ben dopo lo tsunami della crisi finanziaria, tuttora ben lungi dall’essere risolta, nonostante gli annunci di “ripresa” che periodicamente ci vengono propinati.

E le banche? Continuano imperterrite sul percorso tracciato dalla loro intrinseca mutazione genetica, in corso a partire dagli anni settanta e sempre più evidente anche ai non addetti ai lavori, visti gli effetti deleteri che ha già provocato e continua a provocare, e che rischiano in futuro di ripetersi in maniera ancor più disastrosa, se non interverremo invertendo la deriva speculativa e finanziaria assunta dal sistema e favorita dalle ideologie neoliberiste diffuse a livello globale agli inizi degli anni ’80. Queste teorie economiche, enunciate nei primi anni ’70 dai cosiddetti Chicago Boys (un gruppo di economisti, studenti e docenti, dell’Università di Chicago) e sperimentate in Cile col “consenso” garantito dalla dittatura di Pinochet, sono state estese all’economia mondiale all’epoca della leadership di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, e tuttora vantano il sostegno di numerosi economisti e, naturalmente, delle élite industriali e finanziarie, che ne hanno tratto grande beneficio. Tutti gli altri molto meno, a partire dalla classe media, che ha visto assottigliarsi sempre più i propri margini di benessere e sicurezza sociale, a favore delle classi più abbienti, mentre i poveri sono rimasti tali, anzi in qualche caso sono anche aumentati.

E un grosso ruolo in questo trasferimento di ricchezza verso l’alto lo hanno avuto proprio le banche, dapprima implementando la pratica del credito al consumo, che aumenta il livello medio di indebitamento per favorire la corsa agli acquisti, ingenerando una pericolosa confusione sociale e antropologica fra “benessere” e “possesso”. Ma più ancora snaturando la propria funzione di sostegno all’economia con la propria attività di intermediazione fra il risparmio e l’investimento produttivo. A grandi linee, per secoli le banche hanno raccolto il surplus di liquidità dai risparmiatori, per poi concedere credito a chi necessitava di finanziamenti per le proprie attività produttive o, caso tipico dei privati, per comprare casa. La differenza fra il tasso richiesto ai debitori e quello riconosciuto agli investitori, il margine di intermediazione appunto, era il guadagno della banca. Oggi non è più così: complice la riduzione della forbice fra tassi attivi e passivi, le banche hanno iniziato a cercare il guadagno direttamente nella gestione del risparmio, gravandolo di commissioni. Oggi il risparmiatore medio viene spesso indirizzato verso prodotti di risparmio gestito, costruiti dalla banca in modo da garantirsi un ritorno certo di commissioni, che ormai costituiscono una parte rilevante degli attivi. Ovvero, la banca produce sempre più utili dalla gestione finanziaria del risparmio, e sempre meno da quella creditizia, cioè si utilizzano i soldi per fabbricare altri soldi, anziché per implementare lo sviluppo dell’economia reale. Finché i mercati crescono, beninteso. Ma se un qualunque granello di sabbia (o macigno) blocca l’ingranaggio, cominciano i guai, specie in un mercato globale. Lo abbiamo visto con la crisi greca, lo scandalo Volkswagen, la frenata cinese, eccetera. E si ripeterà ancora, perché è impossibile garantire tassi del due, tre, quattro percento quando l’economia reale sale dello zero virgola qualcosa. A meno di non speculare, o scommettere sui derivati, o simili alchimie di “finanza creativa”. Fino a quando scoppia un nuovo scandalo o l’ennesima bolla speculativa, per colpa di “poche mele marce”, e qualche poveretto si ritrova col cerino in mano e paga al posto di chi ha già messo al sicuro il malloppo.

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