Verso le elezioni d’inverno con un’agenda per il Paese

L’Italia si avvia ad affrontare le prime elezioni politiche invernali della sua storia dovendo sopportare una situazione economica e sociale mai così gelida dal punto di vista del lavoro, della prosecuzione delle attività industriali, del mantenimento di un decente livello di vita per le famiglie.

Fra i temi che caratterizzano questo inizio di campagna elettorale spicca quello di definire un’agenda per il domani del Paese. Si tratta di un elemento che rende esplicito il più grande deficit manifestato dalla politica in questi anni, ovvero l’assenza di un insieme di priorità verso cui orientare l’azione di governo. Ma in politica conta avere un’agenda persino di più della consistenza elettorale. Nella storia della repubblica non sono stati rari i casi di minoranze assai determinate nei loro obiettivi, capaci di far incidere la loro agenda: dalla cultura azionista a quella cattolico democratica, e, in negativo sui temi etici e su quelli istituzionali, il Partito Radicale.

Il dibattito attorno ad un agenda politica oggi si può sviluppare in due direzioni. Mette in luce ciò da cui il Paese non potrà prescindere dopo le elezioni: un decoro ed una credibilità per chi rappresenta le istituzioni ed un senso di responsabilità nella gestione delle risorse che deve pervadere la vita pubblica. Inoltre, fornisce l’occasione a tutti di riflettere sull’importanza di trasformare in un’agenda politica ciò che si è in grado di cogliere dalla propria prospettiva sociale e culturale. Ciò credo che valga in particolar modo per quel variegato arcipelago costituito dal cattolicesimo democratico e sociale.

Da una simile prospettiva ciò che emerge più di ogni altra cosa è il fatto che la crisi, nel suo effetto principale, la demolizione del ceto medio, costituisce, come ci ha ricordato il presidente Napolitano nel messaggio di fine anno, «una vera e propria “questione sociale” da porre al centro dell’attenzione e dell’azione pubblica». Ed emerge anche come non si possa accettare che l’inizio dell’attuale crisi venga collocato tra il 2007 e il 2008. La crisi attuale ha radici profonde a livello globale e per ciò che concerne il nostro Paese si può collocare il suo inizio negli anni Ottanta, quando a causa dei mutamenti del quadro internazionale il progresso economico e sociale dell’Italia era divenuto un elemento non più determinante sul piano strategico complessivo. Da allora il Paese è stato soggetto, a tappe forzate, all’assimilazione di un modello economico e sociale che non ci è proprio e di cui adesso ne vediamo gli effetti devastanti sul piano economico e su quello sociale, nonostante i lodevoli escamotage attuati da una classe dirigente non mai completamente dimentica dell’interesse nazionale, per salvare il salvabile, per attenuare la riduzione dello stato sociale, rallentare il disimpegno dello stato dell’economia, mantenere un controllo pubblico sul sistema bancario.

La grande instabilità finanziaria manifestatasi sul finire dello scorso decennio non è che uno degli aspetti di una crisi che covava da molto tempo nel lavoro, meno tutelato e meno retribuito, nell’impoverimento e nel decadimento dei ceti intermedi e lavoratori e nella loro emarginazione dalla rappresentanza politica, nella finanziarizzazione dell’economia che penalizza le imprese ed il lavoro, nell’aumento vertiginoso delle disuguaglianze sociali e dei redditi. Sono questi alcuni dei temi sui quali è auspicabile si sviluppi pluralisticamente la progettualità dei cattolici in politica e sui quali si articoli il confronto elettorale tra le forze politiche e gli schieramenti.

E le sfide che abbiamo di fronte oggi sono soprattutto quelle prodotte dal lungo dominio della finanza speculativa sull’economia e sulla politica. È di fronte a tali processi che si definisce una nuova cultura politica riformatrice. La semplice ortodossia verso quelle che Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata della pace ha definito «le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia» ha come prezzo «l’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali». Occorre porsi come orizzonte che illumini le decisioni a qualsiasi livello, il superamento del dominio della finanza speculativa, ben sapendo, da cristiani, che chiunque provi a comprare o vendere senza avere il marchio della bestia o il numero del suo nome (Ap. 13,17), oggi potremmo dire ad intraprendere, a fare attività di ricerca, a fare politica andrà incontro a difficoltà enormi se solo mette a tema il superamento del dominio della finanza sui popoli. Ed invece è esattamente ciò che occorre fare per preservare la nostra epoca dal rischio che gli effetti della crisi sul piano economico e sociale possano avere epiloghi tragici, come ci insegna la storia del Novecento.

La grave carenza etica che caratterizza la finanza speculativa continua a comportare un mero trasferimento di ricchezza dall’economia reale verso le grandi banche d’affari internazionali ed i fondi ad esse collegati. Lì, in quella sorta di buco nero che fagocita gran parte della ricchezza prodotta, impoverendo le famiglie, facendo fallire le imprese e dissanguando gli stati, sono giunti anche gran parte degli ingenti fondi pubblici che sarebbero dovuti servire a far ripartire l’economia. È in atto una dinamica perversa, riscontrabile anche nel nostro Paese: le banche non erogano sufficiente credito alle imprese nonostante abbiamo ricevuto vagonate di miliardi dalla Bce all’1% e preferiscono comprare titoli pubblici al 4-5%. Lo stato è costretto ad esercitare una pressione fiscale altissima i cui proventi però non si riversano più sulle opere pubbliche ed i servizi e ciò non fa che aumentare la depressione.

L’allerta su questi processi deve rimanere al massimo livello perché dopo i timidi tentativi di regolazione della finanza in seguito allo scoppio delle bolle speculative di qualche anno fa, non si è ancora giunti a nessun atto concreto, anzi è stata la finanza a riorganizzarsi. Anziché varare la madre di tutte le riforme in questo campo che è quella di consentire che le attività speculative si svolgano entro i limiti delle capacità di copertura dei soggetti che le intraprendono, senza più coinvolgere il settore pubblico come “pagatore” di ultima istanza, sta prendendo piede l’orientamento opposto: mobilitare tutte le risorse pubbliche ottenute con i tagli alla spesa sociale e con l’aumento dell’imposizione fiscale per fare in modo che i grandi soggetti della speculazione finanziaria internazionale non abbiano da perdere nemmeno un centesimo. Su questo terreno occorre mettere in campo tutte quelle misure atte a fare in modo che la ricchezza prodotta non esca più dal circuito economico costituito da domanda interna – risparmio delle famiglie – credito alle imprese. Occorre sostituire al circolo vizioso della speculazione il circolo virtuoso del potenziamento della domanda interna facendola crescere con una meno inadeguata remunerazione del lavoro e con più risorse per lo stato sociale.

La via da seguire è quella del rafforzamento dell’integrazione europea e della moneta unica. Un progetto che potrà riuscire solo se l’Europa si dimostrerà più sensibile al mantenimento dello stato sociale e allo sviluppo e cercherà di risolvere il problema dei debiti pubblici nazionali non più nel modo auspicato dai banchieri, che, come si è potuto constatare, conduce ad un aggravamento della crisi economica e sociale, ma nell’interesse dei popoli che la compongono.

Le misure economiche dovranno essere accompagnate per i Paesi dell’eurozona anche da coraggiose scelte in campo internazionale. In una fase in cui a causa del progressivo tramonto dell’ultima superpotenza, i giochi mondiali si stanno riaprendo, si impongono per l’Europa scelte di maggiore autonomia e di responsabilità, che tra l’altro possono contribuire a renderla in futuro meno soggetta alle scorribande della finanza predatoria. In un mondo divenuto più frammentato e multipolare, per l’Europa della zona Euro si presenta l’occasione storica per arricchire il sistema delle alleanze, confermando quella atlantica ed aprendosi a quella con i BRICS ed in particolare all’unico paese europeo di questo club di Paesi emergenti: la Federazione Russa. Senza dimenticare che la pace nell’intero bacino del Mediterraneo e la soluzione del conflitto tra Palestina e Israele costituisce un interesse strategico per l’intera Europa e vitale per l’Italia.

In questa agenda da costruire per il bene comune a partire dal punto di vista dei ceti popolari e lavoratori, non può mancare la riforma della legge elettorale ed il superamento della seconda repubblica. Purtroppo va registrato un brusco stop alla chiusura di quella fase politica iniziata nel 1994 che ha favorito l’emergere del populismo e della personalizzazione della politica per quasi un ventennio. La responsabilità di questo arresto ricade su quanti hanno bloccato trasversalmente la riforma della legge elettorale, tema che dovrà essere affrontato subito dopo il voto per chiudere definitivamente l’epoca della seconda repubblica e dare avvio ad una terza repubblica nella quale possa essere ridato proporzionato spazio alla rappresentanza dei ceti intermedi in politica, possano sorgere o consolidarsi partiti veri basati sulla partecipazione dei cittadini e non a gestione personale o familiare, e possa formarsi un bipolarismo autentico non più basato sulla demonizzazione degli avversari e sulla polarizzazione artificiale del voto ottenuta con sistemi elettorali maggioritari, ma basato sul confronto tra progetti politici realmente alternativi.

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