Una nuova stagione del cattolicesimo democratico

La fine della lunga stagione democristiana era stata vissuta in non pochi ambienti cattolici come un’occasione di chiarificazione, o addirittura come una sorta di disgelo con il venir meno dell’irrigidimento dei fronti culturali e politici determinato dalla guerra fredda e dalla dialettica pietrificata fra DC e PCI che riassumeva in sé le contraddizioni di un Paese in cui il lato destro dello schieramento politico era occupato da un partito la cui classe dirigente non si sentiva (e non era) di destra né conservatrice, e quello sinistro da un partito che si dichiarava comunista, che manteneva dei legami se non altro sentimentali con le dittature orientali e che tuttavia governava con una prassi schiettamente riformista, e perfino socialdemocratica, nei territori dove gli era permesso di governare. Di alternanza al Governo del Paese non se ne parlava, perché le condizioni interne e soprattutto quelle internazionali non lo permettevano.

Il venir meno di quei vincoli interni, se restituiva all’ Italia una sua parziale autonomia sui propri destini politici, nello stesso tempo coglieva impreparati molti, compresi coloro che più di ogni altro avrebbero dovuto esserne i più rapidi a coglierne i frutti.

Questo vale in particolare per quell’area culturale e politica interna al mondo cattolico dai confini spesso incerti e che si è variamente definita nel corso degli anni ( “conciliare”, “montiniana”….) e che generalmente viene ad inserirsi nel filone che si conviene di chiamare del “cattolicesimo democratico”, spesso coniugato con quello non interamente coincidente del “cattolicesimo sociale” (poiché vi furono molte figure di credenti che avevano una sincera attenzione per la dinamica sociale ma erano anche schiettamente reazionarie in politica e premoderne in cultura). Un filone che risale addirittura alla Rivoluzione francese, e a quegli spericolati sacerdoti e laici che pensavano possibile, fra ghigliottine e fulmini pontifici, essere per l’appunto insieme cattolici e democratici, che prosegue in modo discontinuo fra l’aspirazione all’ unità nazionale e alla conciliazione fra la Chiesa e lo Stato degli “usurpatori” sabaudi, ed insieme alla denuncia sociale delle disparità di classe attraverso la pratica sociale del mutuo soccorso e della cooperazione rurale che apre la strada alla prima codificazione della Dottrina sociale della Chiesa da parte di Leone XIII per poi essere sistematizzata in una forma di pensiero organico da Sturzo, applicata concretamente da De Gasperi dopo la bufera fascista, reinventata da Dossetti e Lazzati che la intrecciano con il percorso della riforma ecclesiale che si concretizza nel Concilio Vaticano II, e che dà il tono alle grandi stagioni del riformismo possibile nelle condizioni date dalla Prima Repubblica.

Contrariamente ad una certa vulgata diffusa da altri settori interni alla comunità ecclesiale (in particolare a CL, che già di suo fin dagli anni Ottanta del secolo scorso aveva dichiarata chiusa la fase storica del cattolicesimo democratico inteso come forma di sottomissione culturale dei cattolici all’ideologia marxista), la realtà del cattolicesimo democratico non era né univoca né convergente nelle analisi e nelle scelte concrete. Ad esempio, è noto che molti esponenti dell’Azione cattolica, a partire dallo stesso Vittorio Bachelet, ebbero forti riserve verso la cosiddetta “scelta socialista” delle ACLI, mentre alcuni dirigenti dei rami “intellettuali” della stessa AC scelsero pochi anni dopo di entrare come indipendenti nelle liste del PCI, creando non poca tensione nella comunità ecclesiale a partire dalle persone e dalle associazioni a loro più vicine.

E tuttavia in generale costoro condividevano la visione di un pensiero politico che si definisce in primo luogo attraverso la categoria del limite come interno alla politica stessa. L’accettazione della convinzione che la politica non produce salvezza. Che principi e valori la animano sul territorio, e nelle coscienze di quelli che un tempo si chiamavano “militanti”, ma che principi e valori – tutti – non possono essere direttamente versati nelle decisioni della politica e neppure nella legislazione di un Parlamento.

Ecco, una cultura politica di questo tipo avrebbe ben potuto candidarsi ad un ruolo guida nel passaggio di fase che di fatto segnava il definitivo venir meno delle culture legate agli assoluti per il ritorno ad una politica “mite” e “temperata”, secondo le indicazioni sturziane. E invece no, anzi in qualche modo quella cultura andò in crisi forse per il suo eccesso di intrinsecità con le forme politiche del primo cinquantennio repubblicano: accadde così che quanti, pur rimanendo in quello spazio culturale, si erano assai spinti a sinistra in politica, furono fra i più reticenti a seguire Occhetto nella chiusura dell’esperienza politica del PCI, pur avendo davanti a sé la prova provata del concreto fallimento di tutte le esperienze politiche del socialismo reale.

Per quelli, ed erano la maggioranza, che ancora erano più o meno direttamente legati all’esperienza democristiana vi fu invece una forte difficoltà ad accedere all’idea del passaggio da una democrazia consociativa e proporzionalistica ad una di tipo maggioritario e bipolare, forse nel timore che tale passaggio avrebbe in qualche modo costretto la DC a precisare il proprio ruolo rispetto ad uno dei due poli del nuovo assetto politico, riducendo lo spazio di manovra di una cultura politica che era sempre stata minoritaria ma capace di condizionare in momenti significativi la storia del Paese, almeno dalla fase degasperiana fino alla fine della Segreteria De Mita.

Da qui forse il crescente malessere registrato da persone ed associazioni, nella difficoltà delle organizzazioni più tradizionali (AC ed ACLI in primo luogo, anche se con forme e modalità diverse) di ridefinire il proprio ruolo nella Chiesa e nella società, nella progressiva estraniazione rispetto ad un sistema politico ripiegato su se stesso e attraversato da periodiche convulsioni in cui alla nascita a getto continuo di nuovi soggetti partitici non fa riscontro un rinnovamento di pensiero, di prassi e di costumi, mentre il senso comune dell’opinione pubblica si avvita sempre di più in una sorta di koinè reazionaria in cui il dirsi cristiani è fattore identitario e tradizionale ma non si alimenta a quella fede viva e vivificatrice che, sola, permette di far crescere una società di tipo nuovo.

La forza tradizionale del cattolicesimo democratico, nella sua versione intellettuale e politica, stava nel fatto di essere interno (anzi per certi versi di avere la leadership) di una realtà popolare diffusa, assumendone le problematiche e cercando di interpretarle in modo originale e creativo. La secolarizzazione, l’emergere di nuove ed aggressive forme di integrismo militante, la pervasiva forza insieme burocratica e  politica del “progetto culturale” ruiniano, e peraltro anche una certa tendenzaall’elitismo intellettuale hanno progressivamente estraniato l’establishment del cattolicesimo democratico da questa dimensione popolare, riducendone spesso le linee di ricerca culturale, pur pregevoli a monologhi nel vuoto. E’ del tutto evidente che ogni proposta di tipo riformatore, se viene concepita in assenza del soggetto collettivo che dovrebbe farsene portatore, risulta in ultima analisi priva di fondamento, astratta, limitata alla radice dalla sua incapacità di interagire con la realtà concreta delle persone, le quali sono soprattutto alla ricerca di risposte ai loro problemi che, senza mettere fra parentesi la complessità come fanno i demagoghi e gli integristi di ogni tipo, possano però essere spendibili nel terreno della dinamica politica e sociale.

E’ fuor di dubbio, peraltro, che la cultura cattolico democratica sia stata quella che più direttamente ha contribuito a preparare il Vaticano II, a seguirlo nei suoi sviluppi e a curarne l’applicazione nel nostro Paese. La stessa figura di Dossetti, ad un tempo padre costituente della nostra Repubblica e perito conciliare di punta accanto al cardinale Lercaro, sta a significare una linea comune fra riforma politico-sociale e riforma ecclesiale che peraltro è stata comune a tutti i grandi spiriti che, con alterne vicende, hanno in qualche modo aperto la strada  alla riforma ecclesiale del XX secolo. L’opacizzarsi progressivo di quella stagione di grandi speranze, l’evidente propensione dell’establishment ecclesiastico per i nuovi movimenti “carismatici” privi di agganci diretti con la stagione conciliare o magari anche in velata polemica con essa, se non altro per esigenze di visibilità e potere, la concezione dell’ “ermeneutica della riforma” del Concilio nel senso spesso corrente della parola “riforma”, ossia come arretramento e non come spinta propulsiva, hanno messo in crisi questa impostazione, rendendo incerto anche il cammino della realtà associative tradizionali, e impedendo l’emergere di un’ opinione pubblica e di un vero protagonismo laicale all’interno di una comunità ecclesiale oscillante fra indifferenza e conformismo.

Il cattolicesimo democratico, che ha un’autentica vocazione riformista e quindi aliena da gesti di rottura tanto clamorosi quanto inutili (che ne è stato, in definitiva, del dissenso ecclesiale degli anni Sessanta e Settanta  in termini di fecondità di proposta di fede e di vita all’interno della comunità ecclesiale ?) si trova quindi, e lo ha dimostrato la vicenda dell’ “Appello” stilato da Alberigo ed altri contro le pressioni della CEI  sui politici credenti nel febbraio 2007, su di un crinale molto difficile, stretto fra la compressione degli spazi di autonomia del laicato e la difficoltà a dar ragione di una tradizione culturale fortemente connotata in uno scenario culturale ed antropologico sostanzialmente mutato.

D’altro canto, come ha dimostrato un recente volume intitolato per l’appunto Una Chiesa da riformare curato per le edizioni Qiqajon del Monastero di Bose dal noto storico della Chiesa Saverio Xeres, la questione della riforma della Chiesa, ossia dell’appello ad una sempre maggiore fedeltà alla sua forma tipica, che è quella di Cristo, ha scandito l’intera vicenda bimillenaria del corpo ecclesiale attraverso errori, rotture drammatiche, grandi riconciliazioni, ed è questione che per sua natura non si restringe al semplice ambito intraecclesiale, ma investe nel suo insieme tutti gli aspetti della vita della persona credente e del suo essere sociale. In questo senso, pretendere di separare rigidamente, pur nella loro distinzione ontologica, la riforma ecclesiale da quella politica e sociale.

Qui si gioca gran parte della credibilità di una cultura, del senso di una storia, della sua capacità di futuro.

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