“Fedora” di Giordano ritorna alla Scala

Grande prova del tenore Roberto Alagna, ma deludono la protagonista e la regia di Mario Martone

di Alessandro Mormile

Fedora di Umberto Giordano ritorna al Teatro alla Scala in un nuovo allestimento firmato da Mario Martone che avrebbe già dovuto debuttare nel 2020. Poi l’emergenza sanitaria del Covid ha rimandato di due anni l’andata in scena di uno spettacolo che ora approda nella sala del Piermarini e lascia il pubblico interdetto, con fischi che alla prima hanno accolto il celebre regista e il suo team di lavoro. Anche la critica milanese, solitamente pronta a schierarsi a favore delle regie più cervellotiche e drammaturgicamente insulse (prima o poi si capirà che il teatro d’opera abbisogna, registicamente, di chiarezza espositiva per tornare ad essere popolare e non appannaggio di pochi intimi), ha dovuto ammettere che questo spettacolo abbia faticato non poco ad entrare nella dimensione di un’opera certo dal libretto farraginoso, ma la cui carica drammatica non è aliena da una teatralità che il noto regista napoletano fatica e comprendere cercando di affiancare al realismo, talvolta addirittura cinematografico, come avviene nel clima da film poliziesco che caratterizza il primo atto (forse il più riuscito del suo spettacolo), la dimensione surrealistica, qui assai evidente a partire dal secondo atto.

Può anche non infastidire che il regista cali l’ambientazione nella contemporaneità, seppure molti riferimenti del libretto si perdano se rapportati al nostro presente, ma ciò che più compromette il lavoro di Martone è quel riferimento al naturalismo di Giordano, “incrinato – come si legge nelle note di regia – da contrappunti più astratti”. Ed ecco che, per giocare d’astrazione e sottrazione, cosa che per altro era mirabilmente riuscita a Martone quando mise in scena un altro capolavoro del verismo operistico come Cavalleria rusticana di Mascagni alla Scala, si utilizza la mediazione pittorica di Magritte, con esplicite citazioni ai suoi quadri, puntualmente tradotte dalle scene di Margherita Palli e dai costumi di Ursula Patzak. Ecco che il realismo dell’opera di Giordano, tratta dal dramma di Victorien Sardou messo in versi da Arturo Colautti, viene appunto condotto sul binario rischioso del surrealismo, con controscene di mini che divengono controfigure reali, come se prendessero vita dal racconto di chi le evoca, quasi fantasmi che tormentano l’anima di chi ha commesso colpe. Ed ecco il cadavere di Vladimiro insanguinato, la sua amante Wanda e la madre di Loris ritratta nella sua serena vita bucolica! Nulla di più depistante, se si vuole anche grottesco, dal momento che Fedora, con i suoi vuoti drammaturgici pericolosi, non ha bisogno di digressioni che rendano incomprensibile un libretto già di per sé improbabile e dalla trama intrisa di spionaggio politico, conflitti passionali, enigmatiche incomprensioni relazionali e malinconici abbandoni. La stessa regia, per di più, non costruisce personaggi, ma insegue i suoi pensieri concettuosi dando la sensazione che, al di là delle intenzioni espresse, Martone non sia stato così attratto da quest’opera. Che sia difficile da mettere in scena è noto, ma chi ricordava il magnifico spettacolo con la regia di Lamberto Puggelli, che debuttò sul palcoscenico scaligero nel 1993 con protagonisti Mirella Freni e Plácido Domingo diretti da Gianandrea Gavazzeni, quello di oggi lascia davvero l’amaro in bocca.

Per fortuna sul podio dell’orchestra scaligera c’è un direttore che, come Marco Armiliato, sa muoversi con saggezza alla ricerca di quell’equilibrio mirabile fra l’enfasi appassionata e il languore sentimentale struggente di alcuni momenti dell’opera, come il magnifico Intermezzo del secondo atto. Senza sbavature ed eccessi, accompagna i cantanti con accuratezza e dimostra come, se ben diretta, quest’opera acquisti quella teatralità avvincente che la caratterizza.

Certo sulla scena ci devono essere due protagonisti d’eccezione e un ampio stuolo di ruoli di contorno che devono fare la loro parte. In questa occasione il soprano Sonya Yoncheva, Fedora, certo non aiutata dallo spettacolo di Martone, che nel primo atto ne volgarizza addirittura la figura e, negli atti successivi, le impedisce di emergere per il protagonismo che compete al personaggio (quello della prima donna decadente), sembra vocalmente spaesata dinanzi ad una vocalità che sembra non appartenerle. Il fraseggio, nel canto di conversazione, è ai minimi termini quanto a fantasia e varietà di accenti e la voce cerca nei gravi sonorità innaturali ad una vocalità che sembra aver perso anche negli acuti lo smalto di un tempo. Insomma una prova deludente, soprattutto se rapportata alla fama di una cantante il cui prestigio sembra, negli ultimi tempi, soggetto ad una preoccupante battuta d’arresto.

Decisamente migliore è il Loris di Roberto Alagna, che riconquista il pubblico milanese, ma non i favori di una frangia della critica italiana che continua a non amarlo e, pertinacemente, a non comprenderne il valore. Il tenore italo-francese si è presentato in forma vocale e fisica smaglianti, ancor più ammirevoli se valutati in rapporto alla già lunga carriera e all’età (59 anni) che comunque non gli impediscono di apparire sulla scena ancora prestante, appassionato e a tratti quasi commosso nel seguire un mirabile tracciato interpretativo che lo conduce a svelare, momento dopo momento, l’alto valore artistico della sua prestazione. Da subito si ammira, applauditissimo dal pubblico, in “Amor ti vieta”, pagina cantata con una voce che non ha perso la malìa originaria del timbro e solo qua e là risente di un vibrato nel registro acuto, seppure dominato ad arte. La famosa aria è intonata con un tempo lento e allargato, accarezzando le melodia, con voce ampia e morbida, addirittura compiaciuta nel far apprezzare tutto l’involo amoroso che si riflette subito nella magia del momento. È poi efficace nel racconto (“Mia madre, la mia vecchia madre”), dominato senza cedere a facili effetti, così come, subito dopo, a conclusione del duetto con Fedora, certe frasi, come “Vedi, io piango…Ma, se piango, no, non è per la mia vita…”, fanno comprendere come Alagna sia sempre interprete sensibile ed eloquente, anche nel finale dell’opera. A chi lo accusa di cantare tutto forte si può rispondere invitando ad ascoltare con più attenzione alcuni momenti dell’ultimo atto, dove alla declamazione martellante di “Non voglio che muoia!” segue un “Soccorrila, Borov, in nome del ciel!” con una bellissima smorzatura sulla parola “ciel” e il commosso trasporto di “Son qui, vicino a te…per darti il mio perdon…”. La didascalia del libretto indica di accompagnare quest’ultima frase “con anima”, Alagna la intona abbracciando la morente Fedora con toccante accoramento, come solo un grande tenore ed interprete come lui può fare. Veramente una prova ragguardevole.

Un po’ sottotono il De Siriex di George Petean, opaco nella canzonetta della donna russa, mentre fresca e brillantissima l’Olga Sukarev della brava e fascinosa Serena Gamberoni, che ad inizio dell’atto conclusivo canta aggirandosi sulla scena pedalando su una bicicletta, e lo fa con gran disinvoltura.

Merita citare tutti i ruoli di contorno per la qualità delle prove offerte da Caterina Piva (Dimitri), Cecilia Menegatti (Un piccolo Savoiardo), Gregory Bonfatti (Desiré), Carlo Bosi (Il Barone Rouvel), Andrea Pellegrini (Cirillo), Gianfranco Montresor (Borov), Romano Dal Zovo (Gretch), Costantino Finucci (Lorek), Devis Longo (Nicola), Michele Mauro (Sergio) e Ramtin Ghazavi (Michele).

Alla terza e affollatissima recita del 21 ottobre, successo finale vibrante per tutti.

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