Rossini Opera Festival 2022

“Le Comte Ory”, “La Gazzetta”, “Otello” e molte altre sorprese per un Festival che continua a rendere onore al suo ormai lungo percorso storico

Con ben quarantatré anni di storia, il Rossini Opera Festival (ROF) prosegue il proprio glorioso cammino e consegna al suo percorso storico un’altra edizione degna di grande attenzione. Pochi sono i Festival operistici che tanto hanno fatto per riscoprire un autore in tutti i suoi segreti, accompagnando alla riscoperta delle sue opere una prassi esecutiva evolutasi nel tempo, plasmandosi anche sulle nuove tendenze che il teatro di regia ha imposto ad un cammino che ha visto gli anni della rinascita belcantistica unirsi ad un modo di avvicinarsi al teatro rossiniano in maniera comunque sempre meditata, sostenuta dagli studi critici della Fondazione Rossini.

L’edizione di quest’anno, come sempre ricca, propone dunque appuntamenti e occasioni preziose per apprezzare un volto continuamente rinnovato nel modo di proporre e concepire il teatro musicale rossiniano, radicandolo nel tempo in cui ci si trova. Ed oggi che i fulgori dell’epoca belcantistica non hanno più la portata dei primi anni, le sorprese non mancano comunque di confermare come il Festival sappia stare al passo con i tempi. Questo ne conferma la vitalità. Dal 2023 il ROF avrà anche un nuovo Direttore artistico nel grande tenore Juan Diego Flórez, che coadiuverà il Sovrintendente Ernesto Palacio nell’ideazione e nella composizione dei programmi futuri del Festival.

LE COMTE ORY

L’edizione di quest’anno si apre con una nuova produzione de Le Comte Ory con protagonista Juan Diego Flórez e la messa in scena di Hugo de Ana, il cui spettacolo, così ricco di colorate sollecitazioni visive a centrifugo moto perpetuo, trasforma la sottile e piccante parodia che è propria a quest’opera nella surrealistica immagine di scene e costumi che nascono ispirandosi al celebre trittico del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch. Dagli infinitesimali particolari simbolici spesso difficilmente decifrabili di questa celebre opera pittorica prende vita uno spettacolo macchinosissimo e fantasioso, ma anche attento – ed è questo il bello – a non perdere per strada il significato dell’opera e la sua trama in mezzo alla confusione cromatica e di movimenti che invade il palcoscenico. Segno che de Ana sa bene come far teatro e unisce alla sua vocazione di scenografo quella di regista sensibile e attento ad ogni particolare della scena (firma lui stesso scene e costumi), così come alla psicologia dei personaggi. Ed è veramente singolare come, dinanzi a questo spettacolo surreale, la raffinatezza della partitura non ne patisca, se non in minima parte, forse perché la direzione d’orchestra, di Diego Matheuz, alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, cerca un suono matematicamente improntato su una quadratura musicale tutta esteriore e poco sensibile a sottigliezze che talvolta si perdono, soprattutto nel celebre notturno dell’ultimo atto. Il cast vocale risponde però bene.

Ancora un volta Juan Diego Flórez veste i panni del protagonista, parte che l’ha reso celebre su tutti in palcoscenici del mondo come interprete di riferimento di Ory. Il miracolo di Flórez è artistico prima ancora che vocale. La disinvoltura scenica, la volontà di approfondire il coté espressivo donando al suo canto nuove sfumature compensano la perdita di qualche suono acuto un po’ meno sfrontato rispetto a un tempo, ma il personaggio c’è tutto, ancora fresco e giovanile, insieme alla grandezza di quello che, nonostante il comprensibile cambio di repertorio, si conferma il più importante tenore rossiniano dei nostri tempi, forte di una sensibilità stilistica riflessa anche nella ricerca di suoni misti che, unitamente al brillio classico del settore acuto, lo rendono tuttora inimitabile in questo ruolo. Al suo fianco si ammira La Comtesse del soprano Julie Fuchs, che canta bene e con stile impeccabile anche se appare un po’ freddina e priva di personalità vocale, e lo splendido Gouverneur di Nahuel Di Pierro, voce di basso ideale per questa parte, agile e insieme timbrata. Maria Kataeva è un buon Isolier, mentre il baritono Andrzej Filonczyk si impone nella canzone bacchica di Raimbaud del secondo atto. Nei ruoli di contorno si segnala Anna-Doris Capitelli (Alice) e il lusso della presenza di Monica Bacelli nei panni di Ragonde.

LA GAZZETTA

Secondo titolo del festival La Gazzetta, proposta nella ripresa dell’allestimento già visto a Pesaro nel 2015, pulito, lineare, essenziale, eppure sottilmente ironico. Il regista Marco Carniti, con le scene ridotte all’osso di Manuela Gasperoni e i bei costumi di Maria Filippi, lo immagina ambientato intorno alla reception di un moderno hotel, con effetti di controluce e gigantesche lettere dell’alfabeto. Il gioco della commedia che vede Lisetta, dopo diverse traversie, vincere sulla volontà del padre, il ricco e ambizioso Don Pomponio, che la vuole sposa ad un uomo che lei non ama, si sviluppa utilizzando anche un personaggio che non parla (il servo Tommasino, interpretato dal bravissimo attore Ernesto Lama), una sorta di moderno Pulcinella che sempre questo spettacolo vuole al seguito di Don Pomponio. Sul versante musicale, la bacchetta di Carlo Rizzi, alla guida dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini e del Coro del Teatro della Fortuna istruito impeccabilmente da Mirca Rosciani, è un capolavoro di brio e scorrevolezza, tale da garantire all’ottima compagnia di canto un tessuto orchestrale lieve e frizzante. Sulla scena svettano su tutti i due buffi: Carlo Lepore (Don Pomponio), che è sempre più bravo e non sbava mai sul côté di una comicità sorvegliata dal gusto e dal senso dato alla parola. Dizione impeccabile possiede anche il Filippo di Giorgio Caoduro, con il valore aggiunto di una coloratura martellata così singolare ed incisiva da imporlo all’attenzione nell’aria del secondo atto, che diviene così un piccolo capolavoro di croccante acrobatismo. Assai brava è anche Maria Grazia Schiavo, alla quale poche note acute non del tutto centrate non guastano la festa di un rendimento vocale che fa della sua Lisetta un personaggio restituito con consapevolezza interpretativa calamitante. Ottimi sono anche i mezzosoprani Martiniana Antonie (Doralice) e Andrea Niño (Madama la Rose), così come il tenore Pietro Adaíni (Alberto), nonostante qualche incursione in acuto un po’ nasale. Chiudono il cerchio dell’affiatato cast gli eccellenti Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gálvez (Monsù Traversen).

OTELLO

Ultimo titolo in cartellone è Otello, affidato alle cure registiche di Rosetta Cucchi, che firma un nuovo allestimento inizialmente spiazzante ma subito rivelatosi geniale nel fare della trama dell’opera un caso di femminicidio. Il riferimento, voluto e accentuato dall’affermata regista, è subito evidente a partire dai titoli di giornale che scorrono lungo le note della sinfonia, e poi da Emilia che ne evoca in flashback il ricordo riportando alla memoria i tanti episodi a noi contemporanei di violenza, delle quali le donne sono vittime spesso indifese. Il richiamo a questo tema è pressante e talvolta estremizzato (come nel coro delle donne, massacrate dai propri partner, che partecipano in maniera straniante al dolore di Desdemona che lamenta il suo triste destino), ma non peregrino, perché Otello di Rossini è opera nella quale il dramma relazionale si pone al centro di un’alta società che questo spettacolo vuole rigida e chiusa nel suo involucro perbenistico e snob che non accetta il diverso e lo emargina anche quando sembra apparentemente accettarlo. Così avviene per Otello, carico di glorie militari ma poco considerato dal mondo che lo circonda. La stessa Desdemona, che lo ha scelto come sposo, è costretta a subire le imposizioni di un padre, Elmiro, che le propone un matrimonio più consono alla sua condizione. Pregiudizi, invidie e indifferenze schiacciano i personaggi fino a portarli a gesti estremi. Desdemona, donna isolata in mezzo a questo mondo che non comprende le sue scelte, finisce per essere vittima della violenza di un marito che la crede, complice Iago, rea di tradimento. Un meccanismo che lo spettacolo della Cucchi, con scene di Tiziano Santi, costumi di Ursula Patzak ed elementi scultorei dell’Atelier Davide Dall’Osso cala appunto nella modernità novecentesca di una ricca società chiusa nelle sue convenzioni sociali, opposta ad una servitù che invece comprende chi è costretto a soffrire per forzate scelte dovute a questo mondo privo di umanità. Ecco perché l’impianto scenico stesso pare riflettere la distanza fra chi tiene le fila del potere e chi lo serve, mettendo prima in scena la borghesia che si diverte e poi il mondo di coloro che, dietro le quinte, sono al suo servizio. Ed è in queste quinte (una sorta di stireria-guardaroba), in cui lavorano i servitori, dove si consumano i veri drammi personali, con duelli fra tenori a suon di roulette russa e scontri relazionali facilmente evitabili se le convenzioni sociali non fossero così insensibilmente inamovibili. Non c’è alcuna forzatura nelle scelte registiche di uno spettacolo che, pur con obiettivi così anticonvenzionali, si sposa istante dopo istante a ciò che suggerisce il libretto, con miracolosa chiarezza espositiva. Ecco, dunque, il caso di uno spettacolo che lancia un messaggio di modernità senza per questo perdere per strada il significato e la comprensione dell’opera. Quando poi, nel finale, Otello si accascia sul cadavere di Desdemona, sul fondo della scena riappare la società festante che continua a celebrare se stessa, insensibile dinanzi al dramma del singolo, ad eccezione di Emilia, donna da sempre votata al servizio e, forse per questo, l’unica in grado di provare pietà per chi ha subito ed è stato vittima di violenza. Spettacolo, quindi, di forza emotiva coinvolgente.

Anche il versante musicale riserva belle sorprese, a partire dalla direzione di Yves Abel, di incalzante tensione narrativa funzionale al dramma, pronta a trovare nei cantanti piena rispondenza teatrale al suo disegno. Enea Scala, nei panni di Otello, vince una sfida coraggiosa per la sua carriera già affermata, ossia quella di sposare una vocalità da baritenore che sembrerebbe non appartenergli ma che invece lo vede dominare la parte, scenicamente come vocalmente, forte di una vocalità sicura e perentoria, capace di belle sonorità nel registro grave e di acuti spinti fino ad una spavalderia non prevedibile da lui per un ruolo come questo. Anche il Rodrigo di Dmitry Korchak sfoggia una voce svettante e riesce anche a piegarla qua e là a sfumature (soprattutto nell’aria del secondo atto), seppure la dimensione vocale resti nella sostanza, per quanto sicura nelle sfere acute di una tessitura improba, piuttosto monocorde. Bravissimo lo Iago incisivo, spavaldo eppure sottilmente perfido di Antonino Siragusa. Desdemona, che in questo spettacolo così come nell’opera di Rossini, assume la centralità che le compete, tanto da renderla la vera protagonista dell’opera, è Eleonora Buratto. Non nego che mi sarei aspettato più colori e maggior abbandono nella Canzone del Salice, ma la brunitura della voce, gli accenti e lo sfogo lirico la vedono imporsi in un finale del secondo atto dove svetta e s’impone per singolare temperamento. Molto impegnata sulla scena è l’Emilia di Adriana Di Paola anche se vocalmente un po’ stinta. Ottimi invece Evgeny Stavinsky (Elmiro), Julian Henao Gonzalez (Lucio/Gondoliero) e Antonio Garés (Doge).

Altri immancabili appuntamenti del Rossini Opera Festival sono, come ogni anno, il consueto Viaggio a Reims riproposto nell’allestimento di Emilio Sagi (rimontato con fresco tocco registico da Matteo Anselmi) e affidato ai giovani della Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”. Tutti bravi anche quest’anno, senza però alcun colpo d’ala significativo, se non nel Don Profondo di Matteo Guerzé, nel delicato ed insieme svettante Conte di Libenskof di Dave Monaco e nel bel colore brunito della Marchesa Melibea di Paola Laguizamón.

Ma è soprattutto nel concerto tutto rossiniano del soprano Giuliana Gianfaldoni (rivelatasi proprio a Pesaro come Corinna nel Viaggio ai Reims dei giovani di alcuni anni fa) e del mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya che si sono toccate le più alte vette belcantistiche del Festival di quest’anno. Guidate dalla sensibile bacchetta del giovane e promettente direttore Vitali Alekseenok, con l’Orchestra Sinfonica G. Rossini e il Coro del Teatro della Fortuna ancora una volta istruito con mano felice da Mirca Rosciani, le due giovani primedonne hanno scatenato l’entusiasmo del pubblico impegnate in pagine da Le siège de Corinthe, Zelmira, Ermione e Tancredi. La prima canta con la delicatezza che le è propria e mostra il meglio di sé in mezzevoci e filati che talvolta superano in bellezza un virtuosismo sicuro ma più accorto che realmente acrobatico. Un vero portento belcantistico è invece Vasilisa Berzhanskaya, che possiede le caratteristiche vocali giuste per restituirci l’idea di cosa potesse essere la vocalità di Isabella Colbran, ossia un soprano assoluto, capace di centri sonori e rotondi che gravitano nella sfera mezzosopranile, così come d’impennate in acuto svettanti, incisive, addirittura sprezzanti. Nella grande e impervia scena da Ermione sorprende per l’accento imperioso capace di coniugare belcanto con il respiro tragico che rende così singolare e difficile un’opera in cui Rossini sperimentò se stesso più che in qualunque altro titolo serio del periodo napoletano, facendo di questa partitura un vero laboratorio in cui convergono diversi stili e forme. Essere riusciti a risolvere questa scena come forse mai era capitato di sentire in maniera tanto completa, costituisce una delle tante sorprese di un Festival che non manca mai di stupire ogni anno, rendendo onore al suo genius loci.  

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