Lasciare a Salvini la rappresentanza di chi chiede una seria revisione del sistema di recupero dei debiti con lo Stato?

Il tema è, detto in maniera brutale: chiudere tutti i contenziosi delle Entrate, rimettere in carreggiata gli imprenditori che sono strozzati dai debiti, far sì che una “partita Iva” possa alzare la testa e pensare a produrre per guadagnare, e non solo per coprire gli arretrati.

Nelle ultime battute di Salvini, oltre a esprimere questi concetti si è aggiunta anche la richiesta di un condono, espressamente di un condono edilizio. Il che equivale a rendere improponibile la benevolenza generalizzata verso i contribuenti dal momento che il condono proprio nel settore che più ha disfatto l’Italia con gli abusi e con le cementificazioni sicuramente sarà respinto – a ragione – dalla maggioranza degli Italiani, indignati.

Forse c’è un calcolo politico: chiedere troppo porterà a non ottenere nulla. E questo darà elementi per rivendicare al populismo il ruolo di difensore del cittadino di fronte a un sistema sordo e insensibile.

Alla fine dei conti, potrebbe non esserci alcuna novità per le orecchie di decine di migliaia di lavoratori autonomi, di piccoli imprenditori, di persone che pagano errori di impostazione e di gestione della propria attività. E questo costituirebbe l’ultima sanzione economica per una massa di Italiani che lavorano volentieri, che desiderano stare alle regole ma che saranno costretti a vendere l’ultima loro proprietà diventando per la collettività privi di reddito e di coperture assicurative.

Ci sono alcune frasi, alcuni concetti, che toccano la realtà delle persone e la fanno sentire compresa e sostenuta. Fu così ad esempio per la generazione di chi aveva bambini piccoli ai tempi del confronto fra Berlusconi e Prodi: sono convinto che l’accenno di quest’ultimo a politiche di sostegno alla condizione di madri e padri nell’Italia dei primi anni del terzo millennio abbia convinto molti a sostenere la sua vittoria nel 2006.

Oggi un pensiero, che passa sotto traccia perché non sostenuto da autorevoli opinion leader, è proprio quello della pacificazione fiscale. Se non interessa i dipendenti pubblici e privati, se non tocca le sfere dell’imprenditoria in doppiopetto, non è detto che non esista una amplissima fascia di popolazione che lo avverte non solo come atto di giustizia ma come vero annuncio di liberazione da ciò che l’opprime.

Qui dobbiamo metterci bene d’accordo su cosa si debba intendere come “pace” dal momento che potrebbe essere la vittoria dei soliti furbi e non il riscatto degli sprovveduti. Uno “sconto” generalizzato non porterebbe alla correzione di qualche ingiustizia ma alla premiazione di comportamenti a dir poco scorretti, in realtà truffaldini.

Se c’è un anelito diffuso a sistemare i conti con lo Stato e con le Amministrazioni Locali augurandosi atti di clemenza nei casi altrimenti non risolvibili, occorre che analisti e responsabili prendano in considerazione le situazioni concrete e intervengano non con il principio del “condono per tutti” ma con quello dell’investimento sul futuro prossimo dell’economia.

Da qui, senza aver paura di affrontare l’argomento con oggettività, anche le forze politiche diverse da quella leghista (la più attenta a ribadire il tema) dovrebbero farsi carico di comprendere chi siano gli interlocutori chiamati in causa e quali potrebbero essere le soluzioni onorevoli per il loro bene privato e per quello pubblico. Proverò a dare qualche elemento per avviare un ragionamento non ideologico sulla questione.

Anzitutto occorrerebbe circoscrivere le situazioni identificando quelle che derivano non da una intenzione di danneggiare la collettività ma da errori di valutazione, e dalle condizioni oggettive che creano il circolo vizioso dell’incapacità di star dietro alle scadenze fiscali.

La prima situazione che viene in mente è quella di “partite Iva” costrette ad essere aperte per la necessità di rispondere con l’auto-imprenditorialità alla ricerca di occupazione. Giovani e meno giovani che per poter prestare la loro opera sono state obbligati dal committente o dalle regole fiscali a costituirsi come “impresa”, quando in realtà si sarebbe trattato di regolare in maniera innovativa una prestazione. Il cambiamento d’impostazione delle condizioni di ingaggio di “dipendenti” e di “consulenti” avvenuto negli ultimi decenni ha portato ad assumere lo status di imprenditore persone che non potevano prevedere, per inesperienza, la complessità della gestione di una “semplice” partita Iva: innesco di una serie di doveri e di oneri anche fiscali che nessun commercialista normalmente prospetta nella sua integralità.

Sono le vittime di una distorsione dei rapporti di subordinazione che crea la falsa sensazione di essere “imprenditori di se stessi”. È la condizione di decine di migliaia di contribuenti che si ritrovano a inseguire in maniera sempre più accelerata le decine di scadenze amministrative e fiscali, in una dinamica dalla quale vorrebbero uscire se solo la giostra si potesse fermare. In più queste persone rientrano facilmente, per il giudizio sul “lavoratore autonomo” che risale agli Anni del boom economico, nella categoria di quelli che ordinariamente evadono le tasse: oltre al danno la beffa.

La seconda situazione che si può descrivere è quella che deriva dagli effetti perversi di certi meccanismi di tassazione. Una malintesa equità fiscale considera pari fra loro imprenditori di peso diverso, la generalizzazione di una valutazione in base a parametri uniformi a volte può intercettare in maniera distorta la realtà e pretendere da questa prestazioni irraggiungibili. È quanto espresso in maniera plastica dai celebri “studi di settore”, secondo i quali – a parità di elementi di identificazione – imprese di collocazione geografica diversa, di conduzione ispirata a modelli ideali diversi, di durata diversa devono corrispondere a parametri di redditività univoci.

Il danno causato dall’applicazione rigida di questo principio per la valutazione della veridicità dei bilanci è di duplice natura: da un lato ha costretto molte imprese a dichiarare il falso, a dover far arrivare cioè il bilancio a corrispondere a quanto un algoritmo aveva stabilito dovesse essere; dall’altro ha suggerito a manager e a commercialisti degli adattamenti delle voci di bilancio tali da lasciare nell’ombra alcuni elementi che avrebbero fatto scattare esponenzialmente i presunti ricavi. Insomma, bilanci e investimenti rivisti al contrario, cioè in funzione della tassazione.

Chi ha operato nella massima trasparenza, chi non aveva consulenti adatti a suggerire qualche “ritocco” strutturale, si è ritrovato più esposto ed ha pagato per guadagni non avvenuti, data la ferrea macchina erariale. Viene da domandarsi a questo punto se lo Stato non abbia abusato del suo potere: se fosse così, la pacificazione fiscale sarebbe un dovere, non un’opzione.

Senza contare poi alcune modifiche alla normativa che fino all’anno precedente avevano dato peso notevole a certi elementi del bilancio, costituendo ragione di tassazione maggiorata, e di punto in bianco aboliti creando una falla che – quando poi una Banca deve stimare il valore dell’azienda per erogare un credito – toglie totalmente rilevanza a voci attive. Mi riferisco ad esempio al valore del “magazzino” in certi comparti, che ha portato lungo il tempo prima a sovrastimare il valore dei beni prodotti (con conseguente aumento della tassazione) poi alla equivalenza a una perdita secca di quanto costituisce l’investimento (la produzione oggi di un bene da vendere domani).

Sono evasori coloro che si sono trovati nelle situazioni sopra descritte e che non sono riusciti a corrispondere costantemente ai versamenti al Fisco o all’Inps, agli Enti Locali e ai rilievi delle cartelle esattoriali? Nel prossimo contributo proveremo a dire come potrebbe venirne fuori lo Stato con dignità mentre riconosce la dignità dei contribuenti “indeboliti”.

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