25 anni fa, con la morte di Rabin finì il processo di pace

A ben vedere, il processo di pace tra israeliani e palestinesi – che non a caso si trascina da lungo tempo senza giungere a nulla di concreto – finì venticinque anni fa, nella notte in cui venne ucciso Yitzhak Rabin. L’unico leader di Isreale che poteva condurre in porto questa svolta storica. Per questo fu ammazzato, la sera del 4 novembre 1995, da un fondamentalista ebreo (non c’è solo il fanatismo islamico), Yigal Amir, al culmine di una micidiale campagna di odio, orchestrata dalla destra israeliana e dal suo leader, Benjamin Netanyahu, a quell’epoca agli inizi della carriera politica.

Nel 1995 Rabin era da tre anni Primo ministro di Israele. Al potere era giunto nel giugno 1992, vincendo le elezioni alla testa della coalizione più spostata a sinistra che la storia israeliana ricordi, il cui principale, se non unico, obiettivo era di fare la pace con i palestinesi, nello schema dei “due popoli, due Stati”. Rabin era l’uomo giusto per riuscire nell’impresa. Non un politicante qualunque in vena di propaganda, non un sognatore che disegna un mondo ideale, ma un ruvido militare che aveva combattuto tutte le guerre che avevano opposto Israele ai Paesi arabi. Nel conflitto dei Sei giorni, nel 1967, fu il condottiero vittorioso che riportava Gerusalemme sotto la Stella di Davide e venti anni dopo, il ministro della Difesa che, durante l’Intifada, voleva “spezzare le ossa ai palestinesi”. Però proprio la lunga presenza sul campo, lo aveva indotto a riconoscere la legittimità della lotta nazionale palestinese.

Così appena divenuto premier iniziarono le trattative di pace con il preliminare riconoscimento dell’Olp, sino ad allora considerata una banda di terroristi. Ne sortì un primo abbozzo di sovranità palestinese in Cisgiordania con la restituzione di Gerico, Jenin, Ramallah e rimandando ad un successivo stadio le questioni più spinose: lo status di Gerusalemme e il problema dei profughi. A chi gli rimproverava di aver stretto la mano (cosa che fece con estrema riluttanza) a Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca, ripeteva che “la pace si fa con i nemici non con gli amici”.

Certo, il cammino sarebbe stato lungo e faticoso e sui profughi la faccenda pareva quasi insormontabile. Il più complicato nodo da sciogliere era il ritorno nel nuovo Stato palestinese di quei milioni di arabi fuggiti da Israele nel 1948. Un vero rebus che avrebbe richiesto sacrifici da entrambe le parti, perché accogliere questa massa di persone in un così ristretto spazio geografico, poteva mettere a rischio la tenuta stessa di Israele.

Eppure mai come in quel periodo un credibile assetto della regione parve davvero vicino. Come tre decenni prima in Francia, Charles De Gaulle era il solo a poter risolvere la crisi d’Algeria, soltanto Rabin – anch’egli un generale, col tipico pragmatismo dei militari – pareva l’unico a poter tentare la quadratura del cerchio. I palestinesi, dopo averlo avversato per anni, sapevano di potersi fidare. Capì benissimo quanto stava accadendo anche la destra religiosa ultraconservatrice che lo bollò come traditore, innalzando cartelli dove compariva addirittura in divisa nazista. Un’offesa ridicola, prima ancora che assurda, perchè rivolta ad un uomo che aveva sempre difeso la patria contro gli arabi. Poi il 4 novembre quegli spari, al termine di un comizio nella principale piazza di Tel Aviv, posero fine a tutto. Anche al sogno di una pace finalmente a portata di mano.

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