Cattolici ed Unità nazionale: una vicenda complessa

Nel 150° dell’Unità nazionale può risultare interessante soffermarsi sulla vicenda dei cattolici impegnati in politica: una trama di idealità, di fermenti culturali e di grandi personalità che ha segnato la vita italiana.

Il dato da cui partire è che l’unificazione si svolse in larga parte contro la volontà della Chiesa che impedì una titolarità ufficiale della presenza cattolica nel moto risorgimentale, salvo la partecipazione di singoli patrioti cattolici. Nello stesso tempo è da rammentare quanto fu importante l’influsso del pensiero cattolico tra il 1815 e il 1848, con uomini come Giovanni Berchet, Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, nel ravvivare l’identità culturale e spirituale del Paese che, proprio nel cattolicesimo, trovava forse l’unico cemento davvero unificante.

Gioberti auspicava un’Unità fondata sulle radici cattoliche dell’Italia. La Chiesa però non poteva porsi alla guida di un movimento patriottico, schierandosi a favore dei cattolici italiani contro quelli austriaci. La Santa Sede si chiamò dunque fuori dalla causa dell’unificazione.

A guidarla furono dunque i liberali. Ed essi lo fecero a modo loro, spesso in chiave anticattolica. Dopo le elezioni del regno Sardo del 1857 che videro il successo dei clericali, accusarono persino i cattolici di essere incompatibili con lo Statuto. Una delegittimazione ante litteram dell’avversario, che, agli occhi del pensiero cattolico, minò la stessa credibilità del liberalismo. La separazione tra lo Stato e la Chiesa era interpretata unicamente come supremazia del primo sulla seconda.

In realtà i cattolici non erano contrari all’Unità di per sé ma avversarono le modalità con cui questa si svolse: un processo liberaleggiante e laicizzante, figlio dell’Illuminismo. Il Papa lo percepì come un disegno rivoluzionario a sfondo anticristiano. La Chiesa si sentì aggredita e in questo contesto nacque il Sillabo: atto politico, non certo religioso.

C’era poi dell’altro. Nell’Ottocento la Chiesa non pensava più ad uno Stato teocratico, ma certo vi era l’idea di dover comunque disporre di un proprio spazio autonomo da qualsiasi altra entità statale. Veniva a galla il retaggio, quasi millenario, delle lotte tra i poteri secolari e quelli religiosi. Pio IX ebbe il timore di venire asservito ai Savoia. Quale prestigio avrebbe avuto, a quel punto, la Chiesa nei confronti delle potenze cattoliche straniere? Preoccupazioni di un’epoca assai diversa e lontana da quella attuale ma, appunto, ogni cosa va collocata nel proprio tempo.

E dopo l’Unità? Sin dai primi decenni successivi all’unificazione, i cattolici, avvertendo di avere dalla loro parte il Paese reale in contrapposizione a quello legale, si impegnarono nel realizzare l’amalgama della comunità nazionale. Fu una sorta di rivincita sul terreno sociale che si rivolse alle masse escluse dall’egemonia liberale con, attraverso una fitta rete di cooperative rurali, società di mutuo soccorso e casse di risparmio. Un’organizzazione parallela, per certi versi alternativa, a quella statale, grazie alla quale i cattolici si inserirono nella vicenda unitaria, ponendosi come risorsa etica al servizio del Paese e a favore del bene comune.

L’ingresso dei cattolici nell’arena pubblica avviene nel 1919 con la nascita del Partito popolare. Il suo fondatore, don Sturzo, volle una forza a carattere nazionale nel segno dell’autonomia della politica dalla sfera propriamente religiosa.

Dopo il ventennio fascista, che interruppe la libera evoluzione politica del Paese, i cattolici divennero nel 1945 i protagonisti della vita pubblica italiana. Emersero ben presto due linee contrapposte: quella di Fanfani e La Pira, sulle orme del codice di Camaldoli, che dopo il fallimento fascista e liberale, immaginava un’Italia in antitesi alle idee risorgimentali, e quella di De Gasperi che pensava di recuperare l’intera nazione, evitando derive integraliste.

Risultò vincente la scommessa degasperiana che trionfò alle elezioni del 18 aprile 1948. Anche se, a ben vedere, la Dc prevalse non tanto come espressione del cattolicesimo quanto perché seppe offrire una prospettiva politica alla maggioranza silenziosa, riconducendo in un alveo democratico strati sociali sostanzialmente conservatori.

Filo conduttore dell’esperienza cattolica in politica è senza dubbio la cultura della mediazione. Qualcosa che significa non soltanto (e già non sarebbe poco) capacità di trovare degli accettabili compromessi tra identità politiche e culturali diverse, quanto il tentativo di tradurre nella concretezza della realtà politica e sociale l’ispirazione cristiana che alimenta questa presenza. Un compito improbo mai interamente raggiunto.

Esclusi dal processo unitario, svoltosi sotto le insegne liberali, i cattolici furono infine i soci fondatori della Repubblica e i coautori della Costituzione. Una Carta, permeata dei valori del personalismo cristiano e improntata ai suoi principi, che rappresenta tuttora il più sicuro presidio a tutela della nostra convivenza civile e democratica.

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