Alpi: una riflessione sul modello di sviluppo

  

A inizio gennaio la Commissione Ambiente del Consiglio Regionale del Piemonte ha ricevuto in audizione il Comitato Tutela Devero, che in poche settimane ha raccolto oltre 75.000 firme per fermare l’ennesimo progetto di “sviluppo” a base di cemento nei territori alpini. Questa e altre vicende possono essere prese come spunto per una riflessione generale sul modello di sviluppo con cui si vogliono valorizzare i territori, in primis quelli alpini che, per alcuni loro caratteristiche, sono forse quelli che meglio possono indicare la strada da seguire. Non è un caso, infatti, che la battaglia più polarizzata e dirimente di questo periodo si stia combattendo sul TAV, un traforo alpino. Ma quest’ultimo è già oggetto di ampio dibattito, per cui preferiamo concentrarci su questioni meno note, ma non per questo meno significative.

Partiamo dalla questione dell’Alpe Devero. Qui, nel febbraio 2018 la Provincia del VCO, Verbano-Cusio-Ossola, insieme ai Comuni di Baceno, Crodo, Varzo e Trasquera, ha presentato il progetto “Avvicinare le Montagne”, a compimento di un Protocollo di Intesa sottoscritto l’anno ancora precedente con la Società San Domenico Ski srl. Un “piano di sviluppo” turistico che prevede un’ampia infrastrutturazione dei versanti alpini e che ha sollevato l’immediata opposizione di buona parte delle comunità locali, operatori economici in testa. Un’opposizione che ha immediatamente trovato l’appoggio di numerose Associazioni ambientaliste. Questo perché l’Alpe Devero è un’area naturale pressoché intatta, tutelata da disposizioni e leggi che partono dal livello locale per arrivare fino a quello europeo, con l’UE che ha riconosciuto il territorio come ZPS – Zona Speciale di Conservazione e SIC – Sito di Interesse Comunitario, per tutelare il suo patrimonio naturalistico, paesaggistico e di biodiversità.

È evidente che una zona che vanta simili peculiarità e che, proprio per questo, è meta di un turismo “dolce”, fatto di ospitalità diffusa e immersione nella natura, verrebbe completamento stravolta da un progetto che prevede seggiovie, cementificazione, sbancamenti, strade di penetrazione, parcheggi e addirittura una funivia che dovrebbe scavalcare il crinale con la valle adiacente, opera al momento “sospesa” in quanto in aperta violazione con il recente Piano Paesaggistico Regionale, che vieta appunto le opere che interessano le linee di cresta. In più, in prospettiva dovrebbe arrivare la predisposizione per l’innevamento artificiale, ormai imprescindibile per qualunque località che voglia darsi una vocazione sciistica, per via del costante declino e della crescente imprevedibilità delle precipitazioni nevose, fortemente ridotte a causa dei cambiamenti climatici provocati dal surriscaldamento globale.

Un problema, quello dell’innevamento artificiale, che riguarda tutto l’arco alpino. I “cannoni” sparaneve spuntano ovunque, perché la necessità del loro impiego cresce parallelamente alla diminuzione delle nevicate spontanee. Soprattutto, si moltiplicano e si espandono i bacini di raccolta per l’acqua necessaria alla formazione della neve artificiale perché, sempre a causa dell’innalzamento delle temperature, le condizioni climatiche che consentono l’innevamento artificiale sono a loro volta rare e brevi, per cui devono essere sfruttate al massimo, con notevole dispendio di energia e necessità di enormi volumi d’acqua.

 Un’operazione estremamente costosa che, in quanto tale, viene ampiamente sovvenzionata con soldi pubblici, come succede spesso nel nostro Paese, dove i fautori della ”libera impresa” sono sempre disponibili a incassare proventi, ma estremamente restii a effettuare i necessari investimenti, per i quali preferiscono battere cassa allo Stato. Soprattutto, una pratica destinata a diventare nel breve periodo ancor più costosa, visto il continuo innalzamento delle temperature, fino a superare il livello di sostenibilità economica, specie tenendo conto del declino della pratica sportiva dello sci da discesa, ormai ben lontano dai livelli di sport di massa che aveva negli anni ottanta. Questo soprattutto perché lo sci è uno sport relativamente costoso per chi lo pratica e dunque, in un’epoca di crisi economica ben diversa dal benessere dell’ultimo ventennio del secolo scorso e venendo meno il traino mediatico degli anni della “Valanga Azzurra”, è fatale che la platea dei fruitori si riduca, fino a non essere numericamente così rilevante da giustificare e coprire i costi crescenti dell’innevamento artificiale. Infatti, in prospettiva si prevede che solo le stazioni al di sopra dei 1800/2000 metri di quota possano avere qualche speranza di mantenere in equilibrio economico la pratica dello sci alpino.

Una prospettiva che dovrebbe indurre a una seria riflessione riguardo agli investimenti da porre in atto. Tanto per capire di cosa stiamo parlando, vale la pena ricordare che quando il commissario Carlo Cottarelli stilò la sua proposta di spending review nel 2014, nella sua lista di aziende a partecipazione pubblica in perdita comparivano oltre 60 società di gestione degli impianti di risalita, per una perdita complessiva  di oltre 16 milioni di euro.

Per quanto riguarda il Piemonte, a titolo di esempio possiamo citare il dato del 2013, che ha visto un contributo pubblico totale di 11 milioni di euro, dei quali 7 destinati alle cosiddette Grandi stazioni (Monterosa, Bardonecchia, Via Lattea, Limone e Mondolè). Come raffronto, si tenga presenta che la cifra investita nell’arco di tre anni in cooperazione internazionale per porre un argine alle migrazioni è stata di 500mila euro, meno di un ventesimo. Non c’è dubbio che occorra una seria riflessione su un modello di business che mostra limiti evidenti, un tema che entrerà certo anche nella campagna elettorale delle ormai prossime regionali.

È chiaro che gli interessi in gioco sono piuttosto elevati, quindi è probabile che non mancheranno le pressioni da parte di chi continua a propugnare questo modello di “sviluppo” ormai insostenibile, così come è chiaro che una parte della politica continuerà a rivolgere la sua attenzione in quella direzione, per non perdere consensi su quel lato e perché ancora troppo legata a schemi e paradigmi appartenenti al secolo scorso.

Ma è anche chiaro che in molti hanno compreso che è necessaria una radicale inversione di rotta, che privilegi la conservazione, la messa in sicurezza e la valorizzazione del territorio in un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale, piuttosto che continuare a buttare cemento e asfalto, secondo una visione obsoleta che vorrebbe trasformare il patrimonio naturale in un ambiente ludico, piazzando infrastrutture ovunque. Anche l’intenzione di portare l’arrivo di una tappa del Giro d’Italia nel cuore del Parco Nazionale del Gran Paradiso, in totale spregio di ogni problematica logistica e ambientale, è indice di un modo di pensare che vede nella natura solo un qualcosa da sfruttare come se non ci fosse un domani.

Ma un domani c’è, o almeno vorremmo che ci fosse, possibilmente un po’ migliore dell’oggi. Un domani che dobbiamo iniziare a costruire ora, con un nuovo paradigma di sviluppo che la politica dovrebbe individuare non con lo sguardo miope rivolto alla prossima scadenza elettorale, ma con la lungimiranza dello statista che guarda alle prossime generazioni. Quanto al consenso, è chiaro che la coscienza ambientale degli elettori è in aumento, come si evince dalle battaglie di segno ecologista che crescono in numero e dimensioni. Lo dimostrano le 75.000 firme in difesa della conservazione della naturalezza dell’Alpe Devero e molte altre iniziative sparse sul territorio. Qualcosa che i decisori politici devono imparare a tenere nella giusta considerazione.


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