“Didone abbandonata” di Vinci al Teatro Goldoni di Firenze

La prima ripresa in tempi moderni di un’opera seria barocca piena di sorprese.

@ Simone Donati / Terra Project

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Didone abbandonata di Vinci andò in scena al Teatro delle Dame di Roma il 14 gennaio 1726. Ebbe successo e fu ripresa a Vienna nello stesso anno. Poi l’oblio fino all’esecuzione con cui l’Opera di Firenze ha aperto il nuovo anno proponendo la prima ripresa in tempi moderni di un’opera seria barocca che segnò l’inizio della significativa collaborazione fra il compositore Leonardo Vinci e il poeta-librettista Pietro Metastasio. Una collaborazione che diede altri frutti, ma soprattutto vide la nascita di una reciproca stima fra i due per la definizione sempre più chiara di quel progetto di opera seria settecentesca di scuola napoletana che codificava la sua struttura con la divisione fra recitativi ed arie tripartite con da capo; queste ultime davano ai cantanti la possibilità di sbizzarrirsi in mirabolanti improvvisazioni belcantistiche divenute soprattutto passerella di bravura per i tanti cantanti castrati che solcavano le scene quando nei teatri romani un decreto papale proibì alle donne di solcare i palcoscenici pubblici. Ecco perché – vuoi per tale proibizione, che imponeva ai cantori evirati di sostenere anche ruoli femminili en travesti, vuoi perché il Settecento non riteneva inappropriato che un ruolo virile eroico fosse sostenuto da una voce androgina, sdoganando un ossimoro caro al secolo dei Lumi – alla prima di romana di Didone abbandonata tutti i ruoli furono sostenuti da castrati. Ma non solo. Vinci si trovò a lavorare in piena armonia d’intenti con Metastasio perché la sua musica, priva di cervellotiche ricercatezze armoniche, dava ampio spazio alle voci di esprimersi sul piano espressivo per mettere in risolto il testo, sia nei recitativi, che portano avanti come di prassi l’azione, sia nelle arie, vere e proprie oasi in cui il personaggio dà sfogo al sentimento maturato nella scena svolta col recitativo, come se l’aria fosse l’organica conclusione emozionale del dettato teatrale. Vinci, con la sua musica melodica capace di sostenere, anzi di esaltare al massimo grado la parte vocale, divenne presto modello ed esempio per il successivo sviluppo dell’opera seria settecentesca.

L’esecuzione fiorentina l’ha oggi confermato ed ha inoltre messo in luce l’abilità di un compositore che utilizza ad arte il recitativo accompagnato a fini drammatico-espressivi, come dimostra l’ampia scena finale dell’opera affidata alla protagonista, una regina abbandonata da Enea e lasciata sola da suoi stessi fidi, che si lascia andare alla morte in un finale dai risvolti tragici che precorrono di molto i tempi. Per il resto non si nasconde una certa convenzionalità nella composizione di alcune arie tripartite, alcune delle quali, però, sono un vero scrigno di tesori vocali, come quelle di Didone, “Son regina e sono amante”, e il patetico lamento “Se vuoi ch’io mora, mio dolce amore non lasciarmi senza di te”, o quelle di Iarba, la cui irriducibile cattiveria si declina attraverso pagine che esprimono il furore con la tecnica belcantistica del paragone, mettendo a confronto lo sdegno con immagini di natura in tempesta.

@ Simone Donati / Terra Project

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Che mettere in scena quest’opera, per di più con pochi mezzi, non fosse facile era ben chiaro. Eppure la regista Deda Cristina Colonna, che ha un passato di frequentazione con il teatro musicale barocco più che consolidato, anche come coreografa, riesce brillantemente nell’impresa coadiuvata da Gabriele Vanzini per le scene, da Monica Iacuzzo per i costumi e da Vincenzo Raponi per le luci. Si affida anche alla Compagnia Altretracce di teatro d’ombre e, attraverso silhouettes di templi, imbarcazioni, giardini e immagini di eroi, evoca il mito e le bellezze di Cartagine e della sua fascinosa Regina con raffinatezza figurativa, ma anche con dinamismo nella recitazione dei personaggi, che colmano con sapienza una scena spoglia, arredata solamente con due scalinate munite di praticabili, dove troneggia una sfinge alata, e scheletriche impalcature attorno alle quali, con un gioco di tendaggi, la regista costruisce scena dopo scena l’opera senza generare mai noia, ottenendo dai cantanti una recitazione di plastica eleganza e fluida scorrevolezza. E quando sulla scena c’è una personalità di grande temperamento come quella di Roberta Mameli, che veste i panni di Didone, il gioco è fatto. Barocchista di comprovata bravura, la Mameli qua e là incorre in talune fissità d’emissione che passano in secondo piano dinanzi alla bellezza della figura (in abito rosso avvolto da una crinolina dorata) e alla varietà espressiva di un fraseggio che la vede vincente nella citata scena finale dell’opera, intonata con i giusti accenti e recitata ad arte. Anche il controtenore Raffaele Pé, che veste i panni del perfido Iarba, è scenicamente coinvolgente ed ha voce timbricamente non poi così singolare ma ben proiettata; sfoggia ottime agilità, mai nervose e stizzite, e bello sfogo in acuto, confermandosi fra i pochi falsettisti italiani degni di tenere testa alla concorrenza di quelli stranieri, con il valore aggiunto di una buona dizione. In bell’evidenza metteremmo anche la voce di Gabriella Costa, Selene, che canta con garbo e musicalità. Decisamente pallido il tenore Carlo Allemano, un Enea che conosce le regole dello stile ma una voce ingolata e stopposa gli impedisce di rendere soddisfacente un canto per lo più inespressivo. Funzionali le prove di Marta Pluda, Araspe e Giada Frasconi, Osmida.

Peccato solo che Carlo Ipata, al quale si deve anche la revisione musicale della partitura per la prima ripresa in tempi moderni di un’opera che dopo il Teatro Goldoni di Firenze approderà anche al Verdi di Pisa, narcotizzi la partitura avvolgendola in un limbo di appiattita noncuranza nella diversificazione ritmica ed espressiva, così da rendere talvolta problematico l’ascolto del lungo succedersi di arie per mancanza di quel ritmo teatrale che la direzione musicale spesso inibisce.

Alla fine delle poco più di tre ore di spettacolo, gli applausi scattano generosi per tutti e premiano la scelta coraggiosa e culturalmente di alto profilo dell’Opera di Firenze, che ha contributo con questo spettacolo a confermare come il barocco italiano, per quanto complesso da eseguire, sia gradito dal pubblico: le tre recite in cartellone hanno registrato un sold out incoraggiante.

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