La riforma necessaria

La legge elettorale del 2005 per le elezioni politiche nazionali viene generalmente riprovata dall’opinione pubblica e dalle forze politiche per una seria di inconvenienti legati alle sue modalità organizzative e al suo funzionamento.

Volendo andare per ordine, fra gli elementi più discutibili vi è in primo luogo la rottura del rapporto diretto fra eletto ed elettore che precedentemente era stata garantita dal voto di preferenza ovvero dal collegio uninominale: adesso invece l’elettore si ritrova sulla scheda lunghe liste di nominativi scelti dalle segreterie dei partiti, i quali ottengono il seggio a seconda delle fortune dei loro partiti e del loro posizionamento in lista. Nelle elezioni per la Camera (a volte) ed in quelle per il Senato ( sempre) l’ampiezza del collegio elettorale coincide con i confini della Regione, e comunque di vastissime circoscrizioni, rendendo il legame fra elettore ed eletto perlomeno aleatorio, e permettendo l’immissione in lista in posti sicuri di persone che con il territorio che li elegge non hanno alcun rapporto.

In secondo luogo, la legge concede un amplissimo premio di maggioranza su base nazionale (alla Camera) o regionale (al Senato) al partito o alla coalizione che arriva prima senza che sia stata definita alcuna soglia minima per l’assegnazione di tale premio, al punto tale che la minoranza migliore in termini di voto diventa netta maggioranza in seggi. Proprio questo aspetto, fra parentesi, sarà oggetto di valutazione da parte della Corte costituzionale che potrebbe dichiarare l’ illiceità di questo meccanismo, di fatto trasformando la legge in un modello proporzionale pressoché puro.

Il terzo nodo è quello della differenza fra la legge elettorale della Camera , che come si è visto assegna il premio di maggioranza su base nazionale, e quella del Senato, che lo assegna su base regionale, al punto tale che sia nel 2006 che nel 2013 il centrosinistra si è trovato ad avere una larga maggioranza a Montecitorio ed una debole o inesistente a Palazzo Madama ( e probabilmente questo era uno degli obiettivi di Berlusconi quando volle la riforma elettorale prima delle elezioni del 2006 che considerava perse, insieme a quello di poter popolare le sue liste- ed i conseguenti gruppi parlamentari- di obbedienti fantocci).

Al netto del pronunciamento della Corte costituzionale dovrà essere la politica, il Parlamento a dare una risposta ad un problema reale che è quello della mortificazione sistematica dell’aspirazione alla governabilità che è il vero motivo, ancora più della rappresentanza, per cui si fanno elezioni in un sistema democratico. Infatti, l’assunzione di decisioni che siano legittimate dal consenso popolare è la ragione per cui la democrazia si definisce come tale, dando a coloro che fungono da rappresentanti una delega ad agire che può essere revocata alla successiva tornata elettorale. La democrazia, infatti, per essere considerata un sistema politico superiore agli altri deve per forza di cose saper produrre risultati migliori di quelli degli altri regimi, e questi risultati sono per forza di cose l’esito di decisioni, che sicuramente debbono essere procedute da ampi dibattiti, ma che alla fine debbono essere prese da chi è investito del consenso degli elettori.

In effetti, chi si chiama da sé fuori da una logica coalizionale e non sa pensare in termini di governo non merita rappresentanza, o comunque ne merita una assai ridotta: il caso più tipico è quello di Rifondazione comunista che per due volte ha avuto l’opportunità di trasformarsi in forza di governo e per due volte ha fallito, condannandosi così ad una sostanziale irrilevanza.

In questo senso credo si debba guardare con una certa freddezza al movimento per la difesa della Costituzione che ha avuto il suo battesimo di piazza il 12 ottobre scorso e che ha fra i suoi numi tutelari in personalità del calibro di Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà e Alessandro Pace. Non si tratta di disconoscere il valore di questi autentici maestri di dottrina giuridica (assai meno rispetto per la verità meritano certi loro compagni di strada), ma non si può non rimanere perplessi di fronte alla violenza verbale di una polemica che appare sproporzionata rispetto alla pur discutibile metodologia con cui si sta procedendo alla creazione della Commissione bicamerale per le riforme.

Molto meglio sarebbe discutere del merito di queste riforme, come ha esortato a fare l’altrettanto illustre costituzionalista Mario Dogliani, ricordando come la Commissione di esperti governativa abbia convenuto su alcune linee guida generali quali il rafforzamento del Parlamento attraverso il superamento del bicameralismo paritario, il consolidamento del Governo in parlamento , la semplificazione del procedimento decisionale, la riforma del sistema di Governo, il superamento della legge elettorale attuale (per l’appunto) ed una seria revisione della riforma costituzionale del 2001 in materia di rapporti fra Stato , Regioni ed Enti locali. Si può aggiungere all’elenco anche la necessaria riforma dello statuto pubblico dei partiti, che fissi le condizioni della loro democrazia interna e dell’accesso alle risorse pubbliche.

Sono questioni di cui si è parlato a lungo, e che meritano finalmente una discussione approfondita e finalizzata ad una decisione: il rispetto per i principi fondativi della Costituzione non ha nulla a che vedere con una critica misoneistica che di fatto si riduce alla paralisi del sistema, screditando la Carta costituzionale nel suo complesso ed aprendo di fatto la via a tendenze ben più distruttive e liquidatorie del suo impianto.

Il Partito Democratico tradizionalmente è sempre stato legato all’opzione del voto su due turni, sul modello elettorale francese, in cui prima si seleziona fra i molti candidati che si presentano (il sistema elettorale d’Oltralpe è basato sui collegi elettorali) e poi si sceglie fra i due più forti in modo che venga garantita la convergenza sul soggetto che si reputa più vicino – o meno lontano- dalle proprie idee. Il modello potrebbe essere replicato su base coalizionale come accade per l’elezione dei Sindaci (un sistema che gli Italiani hanno dimostrato di apprezzare molto) assegnando i seggi su base non uninominale ma tramite le preferenze ovvero su lista rigida ma con collegi più piccoli onde perlomeno avere una maggiore vicinanza dei candidati al Parlamento.

Non si tratta di salvare il bipolarismo: il bipolarismo nel sistema politico italiano postbellico è sempre esistito, e solo l’anomalia della presenza di un forte Partito comunista come referente di uno dei due poli ha impedito l’alternanza. Anche la presenza del Movimento 5 Stelle può essere ricompressa nello schema bipolare giacché la pretesa di questo nuovo soggetto politico di giungere al governo del Paese da solo è chiaramente destituita di ogni fondamento, e richiederà prima o poi un supplemento di maturità politica.

Il vero problema in questa fase è quello di portare a razionalità il sistema perché il nuovo bipolarismo si incardini in un quadro istituzionale che garantisca alla maggioranza di governare e alla minoranza di svolgere efficacemente il ruolo di opposizione, ferme restando le garanzie e le libertà per tutti i cittadini e tutte le formazioni sociali.

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