Non fa scandalo “La traviata” ambientata da Davide Livermore nel 1968

Splendido esordio del soprano americano Nadine Sierra nell’opera di Verdi diretta da Zubin Mehta al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

di Alessandro Mormile

Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino è stato fra i pochi teatri italiani che, anche in piena pandemia, non si è fermato, dividendosi fra streaming e, appena possibile, con recite in presenza seppur con capienza di pubblico ridotta. Ma soprattutto, cosa da sottolineare senza timore di essere smentiti, ha mantenuto il livello della programmazione artistica altissimo, con la presenza di nomi di prestigio e di debutti importanti. Ecco perché, ora che i teatri sono riaperti pur con tutti gli accorgimenti del caso, la programmazione fiorentina brilla per la ricchezza degli appuntamenti e per l’indubbio valore artistico degli stessi. Non si parla più di crisi, né del debito pregresso che pesa sulle casse di un teatro che sembrerebbe aver superato ogni difficoltà con l’arrivo di Alexander Pereira come sovrintendente. Se così fosse, non possiamo che gioirne.

Il nuovo allestimento de La traviata di Verdi e fra gli spettacoli da non perdere. A firmarlo è l’infaticabile Davide Livermore, che ormai lavora col suo team artistico ben rodato, con scene di Giò Forma, costumi di Mariana Fracasso e video di D-wok. L’idea della spettacolo non presenta nulla di realmente nuovo e fa di Violetta Valéry una prostituta che diviene il principale polo d’attrattiva di una casa di appuntamenti negli anni Sessantotto del Novecento, quelli che invocavano l’amore libero e la lotta contro ogni convenzione sociale, quindi anche contro ogni ipocrisia. Le scritte sulle pareti delle scenografie lo attestano. Ma tutto resta nelle intenzioni perché non è La traviata dei figli dei fiori e della contestazione giovanile, come ci si sarebbe aspettato, bensì della borghesia che se la spassa da una festa all’altra. Ed ecco, durante il preludio, apparire dinanzi ai nostri occhi le porte delle stanze di una casa d’incontri, luogo del piacere nel quale Violetta diviene la provocante “regina”.

La protagonista di questa produzione è una donna splendida, abile nel reggere più che bene il gioco scenico dello spettacolo, che la vede indossare costumi provocanti, caratterizzanti la sua condizione di donna dissoluta, eppure indossati con l’eleganza di una mannequin. Nel secondo atto, il ritiro in campagna di Alfredo e Violetta, la loro fuga d’amore dal mondo parigino, diviene uno studio fotografico dove vengono realizzati reportage di ogni tipo, con personaggi equivoci che lo frequentano, mentre la scena della festa a casa di Flora è una esplosione di piaceri e amori che non hanno limite di genere, con la presenza in scena di un nano vestito da torero che da vita alla pantomima della corrida mentre attorno a lui ballerini a torso nudo e invitati lascivi se la spassano alla grande. Scandalo? No, al limite un filo di prevedibilità nel vedere uno spettacolo così ben realizzato, infondo pure bello da vedere (i quadri delle feste sono davvero curati, con richiami alla pittura di Picasso e allo stile d’arredo borghese di quei tempi), che racconta la storia di questa prostituita alla fine redenta al momento di liberarsi dalle sue spoglie mortali, o meglio ancora, di morire dinanzi agli occhi dei suoi soccorritori pentiti, mentre lei, ormai “redenta” dal sacrificio d’amore e consumata dalla malattia, si avvicina verso un fondale di luce che la avvolge mentre chi l’ha raggiunta per farsi perdonare, consapevole di averla giudicata senza comprenderne i veri sentimenti, piange sul suo cadavere adagiato su un divanetto a forma di bocca rossa: il divano che nel primo atto fungeva da altare trionfale per gli amori di questa dea del piacere, di questa sorta di Armida della fine degli anni Sessanta dedita ad una vita di soli piaceri. Uno spettacolo tutto sommato risolto senza le intenzioni provocatorie annunciate, o che in qualche modo si attendevano. Ecco perché parrebbe quasi innovativo vedere in futuro un regista del livello di Livermore realizzare uno spettacolo del tutto attinente alla drammaturgia dell’opera, invece che una sua personale visione che, ormai, rasenta la maniera e il déjà vu nella ricerca di trarre dal soggetto dell’opera l’ennesimo messaggio di modernità più o meno pertinente, se non forzato.

Si è accennato alla avvenenza della protagonista, il giovane soprano americano Nadine Sierra, già affermatissima sui più grandi palcoscenici del mondo, ma alla sua prima Violetta sulle scene; debutto, il suo, sfolgorante. Alla fine del primo atto, il pubblico l’ha subissata di applausi e acclamazioni di consenso. La voce, nella sostanza di soprano leggero, con screziature liriche setose che sostengono una voce luminosa e di timbro fascinoso, in “Ah, fors’è lui” sembra non prender mai fiato e i suoni palpitano di lirismo non estenuato e compiaciuto bensì emozionale ed umanissimo; come se non bastasse, esegue una cadenza in acuto da vera virtuosa, come quelle dei bei tempi passati. Subito dopo è inebriante in “Sempre libera”, concluso con un mi bemolle acuto saettante, attaccato e poi addirittura espanso in sonorità. Il secondo atto, forse quello più difficile per una voce come la sua, vede la cantante costruirsi uno spessore lirico ragguardevole, segno che Sierra, forte di una tecnica strepitosa, amministra al meglio il suo strumento, facendo sempre affidamento su una voce forse non enorme ma magistralmente proiettata. Con un’oncia di espressività in più sarebbe stata perfetta, ma dopo “Amami, Alfredo”, tanto intenso se rapportato alla tipologia della sua voce, è chiaro di trovarsi dinanzi ad una grande cantante, fra le migliori dei nostri giorni. Nell’ultimo atto regala un “Addio, del passato” di perfetta pulizia lirica e intensità emotiva, poi tocca momenti di vera commozione nel finale, trovando un equilibrio fra ragioni del canto e illuminazioni artistiche che fanno dalla sua Violetta il principale motivo di interesse vocale di questa produzione.

Francesco Meli è l’ottimo Alfredo di sempre. La voce è bellissima, la varietà espressiva, i colori ed il fraseggio anche, il volume davvero ragguardevole. Deve solo stare attento a non ingrossare i centri, oggi divenuti davvero importanti per espansione. Se rimane nel suo repertorio di elezione e non fa passi falsi, certe stanchezze vocali, riscontrate in sue recenti prove ma in questa serata quasi del tutto assenti (se non in fugaci passaggi della cabaletta), cederanno il passo alle molte qualità che ancora lo rendono un ragguardevole tenore.

Parlare invece di stanchezze vocali per un cantante di settantanove anni come Leo Nucci, che veste i panni di Germont, non ha quasi senso, perché questo glorioso baritono, che poco prima dell’arrivo del Covid aveva annunciato il proprio ritiro dalle scene per poi evidentemente ripensarci, alla sera della prima del 17 settembre appare in forma addirittura miracolosa. Qualche fiato corto qua e là si avverte, comprensibilissimo visti gli anni di carriera e l’età. I tempi lenti di Zubin Mehta di certo non lo favoriscono, ma l’arte scenica e il fraseggio di marca squisitamente verdiana ci sono tutte, così da farsi ammirare in un “Di Provenza il mar, il suol” cantato da par suo, con l’attacco della seconda strofa a mezza voce, carico di commossa e toccante umanità espressiva.

Zubin Mehta, direttore onorario a vita dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, sembra non voler porre fine al susseguirsi di una attività frenetica sul palcoscenico del Teatro del Maggio, che lo vede alternarsi, almeno secondo l’avvicendarsi degli appuntamenti previsti in cartellone, fra opere e concerti, nonostante gli ottantacinque anni suonati e le condizioni fisiche non certo ottimali. Diresse La traviata a Firenze diverse volte, a partire dalla prima del 1964, ed oggi è ancora qui a dimostrare una classe musicale che, in questa occasione, l’ha visto regalare una concertazione con tempi talvolta un po’ rilassati, eppure ancora ricca di quella compatta e teatrale tenuta drammatica ben lontana dal compiacersi, nei preludi, in un lirismo di straziante nostalgia. Viene oggi a mancare una visione realmente illuminante della partitura e si avverte anche qualche lieve scollamento fra orchestra (che suona splendidamente) e palcoscenico, eppure la zampata del grande nocchiero musicale si percepisce ancora, così come l’amore incondizionato che il pubblico fiorentino gli ha ancora una volta dimostrato in occasione di questa Traviata, accolta con trionfali applausi finali per tutti.

Foto di Michele Monasta

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