“Tamerlano” ai tempi della Rivoluzione russa del 1917

Spettacolo esemplare e cast stellare per un grande Händel al Teatro alla Scala.

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Già si sapeva che Tamerlano di Händel fosse una grande opera, ma in Italia pochi ne erano consapevoli. Venne proposta dal “Caro Sassone” a Londra nel 1724, pochi mesi dopo Giulio Cesare e prima di Rodelinda, quindi incastonata fra quei due capolavori senza che la sua gemma compositiva brilli di minor luce nel musicare un libretto, di Nicola Francesco Haym, pronto a cogliere, nella mirabile messa a fuoco dei caratteri, sfumature tragiche e serrato intreccio ambientato nel palazzo di Tamerlano. I grandi personaggi del passato, anche se svincolati dal periodo storico in cui agirono, sono tratteggiati, come era intenzione di Händel, in tutta la loro umana debolezza; messi in scena non per le gesta e per quello che furono realmente in vita, ma per ciò che incarnavano, nel bene o nel male, secondo codici morali legati a idee illuministe. 

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Pertanto Tamerlano è, fra le opere di Händel, emblematica per la capacità di addentrarsi nello scavo psicologico dei ruoli, considerati non in rapporto alla influenza politica rappresentata, come suggerirebbe il soggetto, ma per i legami sentimentali fra di loro instaurati. In sostanza si evidenzia la volontà di lasciar scorrere il flusso degli affetti senza che ad essi si anteponga una base di razionalità, la quale, seguendo le mode settecentesche, impone che il potere dei sovrani non debba mai essere messo in dubbio, a costo di forzare la verità storica. Questo avviene anche quando lo scettro passa in mano a monarchi assoluti crudeli, conquistatori di terre e cuori come fu Tamerlano, imperatore tartaro che attorno al 1400 mise a ferro e fuoco il sultanato ottomano di Bajazet e, secondo quando inventato nel libretto di Haym musicato da Händel, si innamorò della di lui figlia Asteria, già promessa sposa al principe greco Andronico. Successivamente, con un atto di comprensione regale, rinuncerà ai suoi capricci di seduttore per consentire il matrimonio della coppia, che avverrà però dopo il necessario sacrificio di Bajazet. 

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Quando appunto un argomento è basato su traversie amorose che suscitano sentimenti di fedeltà e infedeltà, alimentando odio, tradimento, furbizia e intrighi, è facile pensare che questi climi espressivi possano snodarsi liberamente, e con la medesima efficacia, anche in epoche storiche diverse da quelle suggerite dal libretto. Non era un falso storico farlo all’epoca di Händel, tanto meno lo è oggi, in tempi in cui il teatro di regia si è impossessato del dramma per musica händeliano riconoscendone la spiccata teatralità, che ha affascinato molti registi, pronti ad attualizzarne il messaggio. Certo di eccessi se ne sono visti, ma quando, come nel caso di Tamerlano andato in scena con gran successo al Teatro alla Scala, l’autore dello spettacolo ha idee geniali come quelle avute da Davide Livermore, qui veramente al massimo della sua creatività, ecco che nasce un allestimento che è pura magia, fra i più belli visti sul palcoscenico scaligero, e non solo, negli ultimi anni. Abilissimo il mix fra riferimenti al cinema (il richiamo alla tecnica cinematografica di Sergej Ejzenstein è evidente, così come alla grandiosità del film kolossal Il dottor Zivago) e l’intuito nel rendere la forma chiusa più che mai dinamica nel portare avanti l’azione, non solo attraverso i recitativi (che sono deputati a farlo), ma anche quando, nelle arie, l’esternazione degli affetti sembrerebbe bloccarla.

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Il flusso dei sentimenti viene potenziato dal sapiente utilizzo che Livermore fa dei da capo come replica stessa dell’emozione esposta, costruendo bellissime cellule teatrali e affidandosi alle scene ideate da Livermore stesso insieme a Giò Forma, ai sontuosi costumi di Mariana Fracasso (una vera sfilata di divise militari, stole di pelliccia, mantelli e colbacchi) e ai video di Videomakers D-Wok che spostano l’ambientazione dell’opera ad inizio Novecento, nello specifico al tempo della Rivoluzione russa del 1917 (della quale quest’anno ricorre il centenario). Ed ecco che il tiranno dominatore Tamerlano diviene Stalin, Andronico assume i caratteri di Lenin e Trotskij, mentre Bajazet, il monarca turco offeso, sconfitto e imprigionato, è Nicola II, ultimo zar della Russia imperiale caduta sotto i colpi della rivoluzione bolscevica, così come Leone è Rasputin. Lo spettacolo è magnifico, da vedere per l’impianto scenico monumentale, con un treno che pare viaggiare lungo le sterminate steppe nebbiose russe grazie ad un gioco di video che sembrano farlo apparire in corsa e immagini di sontuosi interni del palazzo d’inverno offesi dalla razzia rivoluzionaria, con la grande scalinata del terzo atto dove si consuma la fine dell’impero zarista sotto i colori rossi delle bandiere comuniste. Ma questo contorno scenico, davvero magnifico, vive in simbiosi con la capacità che Livermore ha di far spettacolo di regia autentico, dinamico fino alla frenesia, concentrandosi sui personaggi e sulla loro sfumature caratteriali messe in relazione al decorso sentimentale degli accadimenti.

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Un lavoro di cesello che è facile percepire anche nella direzione di Diego Fasolis, che prosegue l’interessante operazione – cominciata l’anno scorso con il successo ottenuto alla Scala da Il trionfo del Tempo e del Disinganno – di “barocchizzazione” una parte della compagine orchestrale scaligera per educarla alle esecuzioni con strumenti storicamente informati. Riesce nell’impresa, anche perché il suono è pulito e bello, anche attento, pur nel rigore filologico, ad aprirsi ad inserti strumentali pensati per l’occasione (vedasi l’inserto della tromba per l’aria di Bajazet “Cielo e terra armi di sdegno”). La sua bacchetta appare forse un po’ meno fantasiosa del solito, ma non eccede mai in effetti ritmici ostinati ed è artefice di una esecuzione accurata negli equilibri sonori, dove la raffinatezza prevale sull’incedere ritmico ostinato proprio a molte moderne esecuzioni barocche.

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Il cast vocale è a dir poco stellare e desta interesse la presenza di Placido Domingo nei panni di Bajazet. È facile immaginare il perché Domingo, che per l’occasione ritorna ad essere tenore dopo essere diventato baritono, sia stato affascinato da una parte come questa, scritta da Händel per un tenore, Francesco Borosini, che in anni in cui a Londra furoreggiavano i castrati, cominciava a imporre anche la corda tenorile fra quelle tenute in considerazione dai compositori del tempo. Nella parte forse più bella scritta da Händel per tale corda, le possibilità per emergere sono molte. Ci vuole personalità vocale, non solo nell’offrire giusti accenti e colori ai recitativi, sia secchi che accompagnati, ma anche nel dar fuoco alle polveri del canto di agilità, che ha modo di emergere in arie come “Cielo e terra armi di sdegno” ed “Empio, per farti guerra”. Bajazet è un personaggio vinto fin dall’inizio, da quando intona l’aria “Fiero e lieto a morte andrei”, fino alla morte, che avviene al momento in cui, nel terzo atto, gli tocca uno dei momenti drammatici più alti dell’opera, quando il sultano turco, per sottrarsi alla tirannia del tartaro Tamerlano, si avvelena e spira dinanzi al monarca persecutore e alla figlia non prima di aver sfogato la sua sofferenza di padre in un’articolata scena dove recitativo secco, accompagnato e arioso (“Figlia non pianger”) si fondono fra loro per esprimere con tragica enfasi espressiva il suo stato d’animo. Qui il glorioso Domingo ancora stupisce. La voce è ferma e calda, oltre che voluminosa ed emotivamente accorata. L’obiettivo teatrale è centrato perché il carisma dell’artista c’è ed è intatto. Cosa non funzionano sono certe dimenticanze nei recitativi secchi (vere amnesie talvolta), i fiati corti che lo mettono a voce fredda un po’ in difficoltà nell’aria d’ingresso, e le agilità, non pulite ed affannate, né ardite e sgranate come si vorrebbe. Manca poi quella consapevolezza stilistica, o ritenuta tale (inutile aprire qui un discorso che ci porterebbe troppo lontano), che ha indotto i “guru” della prassi esecutiva barocca a passar come corrette inclinazioni filologiche certe “mostruosità” vocali al limite dell’effetto caricaturale. Domingo non rientra, per fortuna, in quella categoria; potrebbe apparire un outsider in questo repertorio, ma resta un grande artista, e pertanto riesce ancora a sferrare zampate vocali leonine tali da renderlo credibile ed emozionante sulla scena, in primo luogo quando il canto diviene strumento non di virtuosismo fine a se stesso bensì riflesso della maschera tragica propria al personaggio di Bajazet. Così, ad onta dei difetti sopra esposti, la sua morte sulla scena emoziona e commuove. Gli altri interpreti del cast fanno invece parte della cerchia di specialisti händeliani oggi di maggior valore.

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Ci sono due controtenori di fama planetaria: Bejun Mehta, Tamerlano, e Franco Fagioli, Andronico. Hanno personalità vocali e interpretative differenti, ecco perché, a differenza di quanto solitamente accade quando sulla scena agiscono più falsettisti, non ci si annoia nell’ascoltarli e vederli; sono rivali, ma la loro gara di bravura è stimolante perché mai banalmente scontata. Il primo, alla prese con il piglio del conquistatore declinato in arie di alto virtuosismo, come “Sento la gioia” (con tromba obbligata), presa a prestito per questa edizione scaligera da Amadigi di Händel, e come “A dispetto d’un volto ingrato”, ha bel timbro ed è virtuosisticamente puntuale, forse un po’ più prudente rispetto a passate prove di ascolto. Tuttavia è padrone della scena, che domina con calamitante personalità nel mostrare tutta la protervia del monarca insolente ed efferato.

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Al secondo, invece, è affidata una parte che Händel scrisse per il prediletto castrato Senesino e fa comprendere come Andronico sia personaggio dai tratti eroici sofferti e gentili. In “Bella Asteria” e in “Benché mi sprezzi l’idil che adoro” offre un saggio della sua capacità nel piegare una voce controtenorile carnosa e calda al fascino seduttivo di stampo amoroso. Ma anche nel fuoco d’artificio belcantistico di “Più d’una tigre altero” è brillante nel canto di agilità, conosce l’arte del trillo e gioca con arditezza nel salto fra gravi e acuti, muovendosi da acrobata del pentagramma come solo gli autentici virtuosi sanno fare, provocando il voluto effetto di meraviglia anche a costo di un’inevitabile sensazione di disomogeneità fra i registri. Ecco un controtenore di nuova generazione, davvero prodigioso, riuscito, come pochi sanno fare, a superare i limiti del falsetto rendendolo timbrato quanto più possibile in rapporto a possibilità fino a non molto tempo addietro impensabili per voci come queste. 

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Maria Grazia Schiavo dona alla dolente Asteria il delicato abbandono che le compete con una voce fresca e lucente; i grandi larghi delle sue arie (come “Se non mi vuol amar”, “Deh! Lasciatemi il nemico”, “Cor di padre” e “Padre amato in me riposa”) hanno il giusto respiro liliale, senza che le puntature acute nelle cadenze, ridotte a ragion veduta al minimo indispensabile nel corso della recita della quale riferiamo, sembrino azzardate come era avvenuto alla prima. Marianne Crebassa come Irene, si conferma eccellente interprete sulla scena e cantante da seguire con crescente interesse, non solo in Mozart e nel repertorio francese di fine Ottocento, in cui eccelle, ma anche in Händel, dove si trova a pieno agio. 

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

Delude solo Christian Senn, al quale, nei panni di Leone, è affidata la bella e difficile aria “Nel mondo e nell’abisso”; manca del registro grave richiesto e appare vocalmente piuttosto appannato, privo di nobiltà e vigore nel canto di agilità. 

Superate in abbondanza le quattro ore di spettacolo, il pubblico applaude e non appare provato, anzi felice di aver visto finalmente alla Scala un’opera di Händel proposta ai massimi livelli. Da oggi non si potrà più dire, se non mentendo, che il barocco in Italia non piace. Il pubblico lo apprezza, come già avviene all’estero, ed i nostri teatri se ne stanno convincendo, anche se a piccoli passi, determinanti come quelli fatti con questo memorabile Tamerlano al Teatro alla Scala.

Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

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