Il Papa in Iraq

Un viaggio del Papa è sempre un evento degno di nota, se poi a questo si aggiunge il fatto che si tratta del primo viaggio dopo oltre un anno di sosta forzata a causa della pandemia e, per di più, avviene in Iraq, uno dei Paesi più martoriati del pianeta, ecco che tutto acquisisce una dimensione addirittura storica.

A Baghdad, in quella Mesopotamia bagnata dai due fiumi, Tigri ed Eufrate, avrebbe voluto andarci Giovanni Paolo II che però non poté farlo a causa della prima Guerra del Golfo che, a partire dal 1991 (giusto trenta anni fa), aprì un decennio di grande instabilità segnata nel 2003 con l’attacco anglo-americano per rovesciare Saddam Hussein. Da quel momento si è scatenato il caos, l’accendersi di una polveriera nella quale abbiamo visto violenze e nefandezze di ogni genere. Il tutto culminato con la nascita dell’Isis e con la persecuzione di tutte le minoranze religiose presenti nella regione, cristiani in testa. Francesco con la sua visita ha certo infuso fiducia e speranza ai cristiani che vivono in un oceano musulmano. Ma non solo a loro. Perchè il Papa fa un discorso più generale, ben oltre i confini della cristianità, che tocca l’umanità intera, con una più ampia riflessione sulla libertà di coscienza. Una libertà sotto scacco in troppe parti del mondo.

La presenza cristiana in Iraq negli anni si è notevolmente assottigliata. Dall’oltre un milione e mezzo dei tempi di Saddam a poco più 300mila oggi. Una fuga causata dalla feroce persecuzione dell’Isis, la cui follia integralista mirava a cancellare qualunque traccia cristiana da una terra che da oltre dieci secoli vede il cristianesimo vivere a fianco ai musulmani. Ed è su questa convivenza che bisogna puntare. E’ giunto il momento – speriamo lo sia davvero – di costruire un nuovo Iraq dove la religione non sia più motivo di divisione ma occasione di dialogo e di pace. In questo senso l’incontro con l’ayatollah Ali Al-Sistani è stato il momento cruciale del viaggio. Un incontro della stessa portata di quello che il Papa ebbe due anni fa con l’Imam della Moschea del Cairo, Ahmad Al-Tayyeb, in ricordo, a otto secoli di distanza, dall’abbraccio a Damietta in Egitto tra Francesco d’Assisi e il sultano Malek el-Kamel.

Al Sistani – la massima autorità religiosa sciita in Iraq – è un uomo che ha sempre condannato l’integralismo islamico. A dispetto di qualsiasi logica fondamentalista, con cui lo Stato pretende di imporre ai cittadini il proprio credo come mezzo per salvare l’insieme della società, egli ha più volte ripetuto che <<sono i buoni cittadini a fare una buona società>>. E buoni cittadini sono quelli che sanno vivere in modo pacifico gli uni accanto agli altri, indipendentemente dalla propria fede religiosa.

Questa è la chiave che permette di fare della religione, qualsiasi essa sia, un vero strumento di pace e di convivenza tra gli uomini per edificare il bene comune. Qualcosa che non riguarda solo il Medio Oriente ma che ha un valore universale. Tutti quanti siamo fratelli. Questa è la sola possibile prospettiva per l’umanità e non a caso Francesco ha intitolato “Fratelli tutti” la sua ultima enciclica.

In Iraq il Papa ha fornito motivi di speranza a quella minoranza cristiana che sa di essere a casa propria ma che troppo spesso è stata, come peraltro altre minoranze religiose, bersaglio del fondamentalismo islamico. Nel nuovo Iraq, ma si dovrebbe dire in tutta l’area mediorientale e, a ben vedere, ovunque nel mondo c’è bisogno di salvaguardare quel pluralismo religioso che è una ricchezza etica e spirituale per tutti. Una miglior convivenza tra gli uomini passa dal rispetto della libertà di coscienza di ciascuno. Un fondamentale diritto e un bene insostituibile che tocca le profondità dell’animo umano.

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