La crisi più pesante sull’occupazione femminile

In tempi di crisi internazionale, il mercato del lavoro femminile ne ha molto risentito e da studi economici recenti risulta che nessun Paese che ha varato politiche di austerità, abbia prima preso in considerazione l’impatto di genere di tali politiche. In Italia il 2009 è stato l’unico anno in cui l’occupazione femminile è diminuita e negli ultimi tre anni il tasso di occupazione ha ripreso addirittura a crescere. Il divario con il tasso di occupazione maschile è inferiore a quello che si osservava prima dell’inizio della crisi, ma solo perché questa è diminuita più significativamente. I posti di lavoro in più per le donne sono stati posti soprattutto a tempo determinato e in settori a bassa qualifica, le donne immigrate, impiegate come badanti, hanno sostenuto la nostra occupazione e così le ultra 55enni, che per effetto dell’aumento dell’età di pensionamento hanno rimandato l’uscita dal mondo del lavoro.

La valutazione dell’impatto di genere sia della crisi, sia delle politiche adottate per affrontarle è poco diffusa. Una crisi concentrata nel settore dell’industria o dei servizi influisce sul benessere di uomini e donne in modo diverso. Destinare fondi pubblici per finanziare il settore sanitario, o per le infrastrutture, costruendo per esempio ponti e strade, che sono sicuramente importanti, genera tuttavia impatti diversi su uomini e donne. E’ importante che nel nostro Paese si diffonda sia la cultura della valutazione delle politiche, sia la cultura della loro valutazione in un’ottica di genere. Di ricette facili per far sì che in Italia il mercato del lavoro accolga più donne, innescando il meccanismo virtuoso di “+ lavoro femminile= più crescita,+ figli, + consumi”, non ce ne sono. Ma senz’altro i dati che vanno nella giusta direzione, anche se piccoli di fronte al reale bisogno di occupazione, sono quelli che il Ministero del Lavoro ha segnalato circa gli incentivi avviati nei mesi scorsi per favorire l’occupazione femminile: 6500 donne assunte grazie alle previsioni in favore di donne e over 50 della Legge 92/2012, di cui 2.000 a tempo indeterminato e 4.500 solo nel Mezzogiorno; 18.000 domande pervenute all’INPS a seguito degli incentivi all’occupazione giovanile, di cui il 38% ha riguardato donne.

Come pure positiva è da considerarsi la prossima istituzione, nel 2014, anno europeo per la conciliazione famiglia-lavoro, di una Commissione per la Conciliazione lavoro-famiglia, che avrà il compito di individuare le azioni che potranno essere messe in atto, distinguendo quelle attuabili senza spese, da quelle per le quali sarà invece necessario sostenere costi. Un ripensamento del nostro sistema di welfare sarebbe opportuno per dare più spazio alle politiche familiari, includendo misure fiscali disegnate per le famiglie dove entrambi i genitori lavorano e sostengono i costi per la cura dei figli e più servizi per la prima infanzia. L’altro elemento utile sarebbe quello che potrebbe aiutare a superare il fattore culturale della divisione dei ruoli nella famiglia, introducendo opportunamente congedi di paternità esclusivi e pienamente retribuiti (oggi abbiamo paradossalmente un solo giorno di congedo per i papà). Misure a favore dell’occupazione femminile, per la conciliazione della vita familiare e del lavoro risultano dunque indispensabili, se si vuole sostenere il ruolo che le donne si sono ritagliate nel mondo del lavoro e se si vogliono superare quei fattori che ancora ostacolano una loro più forte presenza.

Occorrerebbe inoltre fronteggiare la discriminazione che molte donne ancora vivono sul mercato del lavoro, danneggiate dalla crisi in atto, soprattutto in alcune aree del Mezzogiorno. Secondo i dati Istat, il tasso di occupazione femminile nel 2012 in Italia è stato del 47,1% (donne tra i 15 e i 64 anni su tutto il territorio), un dato molto basso che ci dice che meno di una donna su due lavora e che è pari al 57 % se guardiamo solo al Nord, 52,3 al Centro, per precipitare poi al 31,6 % al Sud. Anche se il tasso di occupazione femminile è ovunque al di sotto della media europea, che è del 60%, vediamo bene che al Sud il problema è molto più accentuato.

Per questo è fondamentale e importante introdurre nuove norme di tutela ma anche dare concreta attuazione a quelle già esistenti, attraverso azioni che siano in grado di cambiare l’approccio culturale con cui le aziende, ma anche i singoli, guardano al tema dell’occupazione femminile. Non dovranno più esserci cose da donne e cose da uomini, il pensiero delle persone sui ruoli fa parte della cultura di un paese e pesa sull’occupazione femminile. La cultura di genere è una determinante cruciale, che a sua volta permea la logica della condivisione nella coppia, influisce sulle aspettative delle imprese, è rilevante per comprendere le politiche pubbliche adottate nel Paese: in Italia purtroppo siamo ancora in una situazione in cui prevale, rispetto agli altri paesi europei, un cultura più avversa alla donna lavoratrice soprattutto se è madre, e meno aperta alla condivisione delle responsabilità di cura.

E infine è bene prestare attenzione anche alla tematica della parità salariale fra uomini e donne, che rimane un problema rilevante. Sempre secondo elaborazioni dell’Istat, relative al 2011, il reddito netto familiare è tanto maggiore quanto più alto è il livello di istruzione del principale percettore. Ma se quest’ultimo è una donna il reddito familiare risulta significativamente più basso: 24.423 € contro i 33.105 nel caso in cui il principale percettore di reddito è un maschio. Il contrasto alla discriminazione salariale di genere può risultare tanto più incisivo quanto più numerose sono le informazioni sui fattori che possono determinarla e, soprattutto, sui soggetti a cui le lavoratrici possono rivolgersi per ottenere tutela.

Insomma, in un momento di crisi così drammatico come quello che stiamo vivendo, in cui a una settimana dal Natale l’allarme lanciato dall’Istat sul rischio povertà nel nostro Paese è molto alto, con un il 30% della popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, con le famiglie che non riescono a servire in tavola un piatto di carne, mantenere ben riscaldato il proprio appartamento o godersi una settimana di ferie, tutte cose che fino a poco tempo fa sembravano normali per gli italiani, ma che oggi per un terzo delle nostre famiglie, sembrano irraggiungibili, qualcosa di nuovo sta succedendo e riguarda proprio le donne. Le donne che in altri tempi di fronte alla crisi erano state le prime a fare un passo indietro e rinunciare al lavoro, quasi dando per scontato che dovessero essere loro a fare un passo indietro, oggi mostrano invece un attaccamento all’occupazione non inferiore agli uomini. Occorre fare attenzione però ed evitare di leggere la realtà per quello che non è: l’occupazione femminile sembrerebbe in crescita, ma in realtà appare tale perché gli uomini perdono il posto di lavoro, sono dunque in verità gli uomini a perdere terreno e non le donne a guadagnarlo, in un livellamento verso il basso. E se nessuno guarderà al diverso impatto che le politiche di risanamento hanno sulle donne e sugli uomini, si rischierà che vengano ridimensionati i servizi sociali e di cura, e il prezzo alla fine lo pagheranno soprattutto le donne.

Più in generale, sentiamo di affermare che occorrono politiche reali e forti in questo momento per rilanciare l’occupazione in Italia e per fare ciò non serve mettere continuamente mano alla normativa sul mercato del lavoro, quanto rilanciare l’economia. Appaiono condivisibili in proposito le recenti affermazioni del ministro del lavoro Giovannini, circa il progetto che prevede di superare la tutela dell’articolo 18 per i nuovi assunti e che a parere nostro appare come un passaggio intermedio verso l’abolizione totale della tutela contro i licenziamenti ingiusti: “Se non c’è una ripresa economica consistente e persistente è chiaro che non ci sarà un assorbimento della disoccupazione. Pensare che cambiare la legislazione di per sé improvvisamente generi uno o due milioni di posti di lavoro – cosa che abbiamo già sentito – è impossibile“.

Occorre dare a questo Paese una risposta riformatrice e di buon senso, siamo proprio sicuri che sviluppare l’economia con la flessibilità del lavoro e la detassazione dei ricchi non voglia dire proprio perpetrare quelle politiche neoliberiste che hanno dominato negli ultimi trenta anni, portandoci all’attuale disastro?

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