Francia: nuovo governo, istituzioni logore

Nuovo governo in Francia con l’ex ministro dell’Educazione nazionale, Gabriel Attal, promosso premier. Il più giovane inquilino di Matignon: 34 anni. Nel nuovo esecutivo molte le conferme, soprattutto i pesi massimi: Gerard Darmanin all’Interno, Sebastian Lecournu alla Difesa, Bruno Le Maire all’Economia. Novità agli Esteri: fuori l’ex socialista Jean-Yves Le Drian e dentro Stephane Sejourné, macroniano della prima ore. A sorpresa, l’approdo alla Cultura di Rachida Dati, già ministro ai tempi di Nicolas Sarkozy.

Una squadra governativa agile: sedici ministri in tutto e completa parità uomo-donna, per questo secondo esecutivo del secondo quinquennato di Emmanuel Macron. Il quarto governo dall’inizio della sua presidenza nel 2017.

Quale, il significato di questo cambio della guardia a Matignon ad appena un anno e mezzo dall’ascesa di Elisabeth Borne? Più che un mutamento di politica sembra emergere la volontà, da parte dell’Eliseo, di restituire vigore all’azione di governo da tempo un po’ appannata. Fatale alla Borne lo sforzo per condurre in porto una riforma complessa e contestata come quella sulle pensioni con l’innalzamento dell’età di quiescenza a 64 anni: due in più di quanto previsto nell’assetto precedente.

Archiviato questo capitolo è come se il suo esecutivo avesse perso di capacità propulsiva. La Borne è stata anche penalizzata dal suo profilo tecnocratico, d’ostacolo forse a quell’allargamento del sostegno al governo preconizzato da Macron.

Certo, le difficoltà non mancano, perché che a Matignon ci sia la Borne o Attal, a mancare è una maggioranza parlamentare. Per la prima volta dalla nascita della Quinta repubblica, ben 65 anni fa, nel 2022 dal voto legislativo non è scaturita una maggioranza solida ed univoca nell’Assemblea nazionale. E, la giri come si vuole, governare in minoranza non è un problema da poco.

Da sinistra si critica la composizione del governo sostenendo che rappresenti un’evidente svolta a destra. E in effetti sono stati estromessi tutti gli esponenti del macronismo di origine socialista. Premiata invece l’anima della destra moderata. Macron sta probabilmente tentando di imbarcare, o quanto meno di ammansire, i repubblicani e magari di conquistarne parte dell’elettorato. Obiettivo: presentarsi alle europee come alfiere del centro-destra e recuperare consensi per colmare la distanza – dieci punti dicono i sondaggi – che separa Renaissance (il partito macroniano) dal Rassemblement national (Rn) di Marine Le Pen.

Ma non c’è solo questo. Macron sta già scrutando l’orizzonte delle prossime presidenziali. Il 2027 è ancora lontano ed egli – al secondo mandato – non potrà più essere della partita, ma gli resta l’ambizione di dar vita ad un blocco moderato capace di contrastare l’ascesa dei nazionalisti della Le Pen e di porsi in alternativa alla sinistra classica. Un coinvolgimento dei repubblicani non agevole da mettere in pista poiché larga parte di essi ha contrastato sin dalla nascita l’onda macroniana. A spezzare un lancia in favore di questa prospettiva vi è anche l’ex presidente Sarkozy intravedendo in questa operazione la possibilità di rivitalizzare sotto nuove vesti la destra moderata.

Per intanto c’è da rivitalizzare il governo e Attal è stato chiamato proprio per questo. Tutto da scoprire però il grado di autonomia del nuovo premier perché Macron si è sinora mostrato una sorta di “super primo ministro” accentrando tutti i principali dossier. Questo è peraltro uno dei perniciosi effetti che si sta verificando con tutti gli ultimi inquilini dell’Eliseo: Sarkozy, Hollande e, per l’appunto Macron.

Tutto deriva dalla riforma, voluta da Jacques Chirac e Lionel Jospin, che nel 2000 ha ridotto da sette a cinque anni il mandato presidenziale, facendolo coincidere con la durata della legislatura. Lo scopo era di evitare – data la contemporaneità tra elezione presidenziale e legislativa – l’avvento di maggioranze diverse tra Presidente ed Assemblea nazionale e la cosiddetta “coabitazione”, non sempre foriera di una chiara linea politica. Oggi questa risulta improbabile poiché nell’arco di un mese – tanto intercorre tra le due elezioni – è difficile che i cittadini si contraddicano al punto da inviare in Parlamento una maggioranza contrapposta a quella del Presidente appena eletto.

Risolta la questione delle maggioranze divergenti è sorto però un altro problema, quello di un Eliseo appiattito su Matignon e di un premier sceso fatalmente di rango. Ne consegue un Presidente sempre meno impegnato nel fissare i grandi orientamenti (come aveva immaginato Charles De Gaulle) e sempre più impelagato nella routine di governo. Un logorio quotidiano cui difficilmente il mutamento di premier può porre rimedio. Semmai servirebbe tornare al settennato e al Presidente arbitro e garante. Nessuno osa proporre una simile riforma, eppure è la sola che restituirebbe all’Eliseo la forza e il prestigio che oggi gli mancano.

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