Li zite ngalera e Lucia di Lammermoor alla Scala

Una rarità di Leonardo Vinci e la versione integrale del capolavoro di Gaetano Donizetti in due nuove produzioni

di Alessandro Mormile

LI ZITE NGALERA di Leonardo Vinci

Al Teatro alla Scala l’attività è come sempre intensissima, e lo è vieppiù in giorni in cui titoli in corso di rappresentazione ed altri in preparazione si succedono. Partiamo dall’interessantissima proposta de Li zite ngalera di Leonardo Vinci su libretto di Bernardo Saddumene, commedia in musica in tre atti, o sarebbe meglio dire “commedeja pe mmusica”: opera simbolo, e quindi storicamente importantissima nell’evoluzione del melodramma del Settecento, di un genere che cominciò ad essere proposto come contraltare dell’opera seria, in questo caso, come in molti altri, in dialetto napoletano. È un’opera buffa che sprigiona una vitalità musicale e teatrale contagiosa, in cui testo e musica si compenetrano per creare un gioco che, come fa notare lo studioso Paolo Gallarati, che di questo repertorio e della sua esegesi ne sa più di ogni altro, si pone in equilibrio perfetto fra la commedia dell’arte e la rappresentazione di piazza. Ecco perché il divertimento, ma anche il disordine fra le parti che mettono in moto la complicata azione, è riflesso di un linguaggio, anche musicale, scattante, ricco di vita, quasi burattinesco. È una materia teatrale spiritosa e divertente, ma anche delicata e fragile, con qualche patina malinconica che si incunea nelle pieghe della partitura (come nel bellissimo terzetto fra Belluccia, Carlo e Ciomma verso la conclusione del secondo atto). Il tutto risente delle convenzioni del linguaggio settecentesco poste sul tavolo di questo genere, fra travestimenti, equivoci e arie con da capo dai ritmi zampillanti, oltre che dell’ambiguità di genere spesso eretta a sistema di un teatro musicale dove cade ogni realistico rapporto fra timbro e ruolo e non importa che una parte di uomo, come quella di Carlo, venga impersonata con voce acuta (quindi da una donna en travesti o, come avveniva talvolta nel Settecento, anche nell’opera comica, da castrati, ed oggi da falsettisti), o che un personaggio femminile, come Belluccia, assuma una identità maschile, quella di Peppariello, mantenendo però la voce femminile, oppure ancora che il personaggio femminile di una vecchia (Meneca) venga impersonato da un tenore. Questo, però, non deve suggerire di utilizzare il sistema semiotico di questo Settecento musicale napoletano snaturandone le ragioni espressive fondanti per trasportare il soggetto nella contemporaneità, magari facendo perno sui suoi equivoci per appellarsi ad una visione che renda omaggio al caricaturismo di certi atteggiamenti omosessuali, facendone, come molti auspicherebbero, una moderna commedia gender. Sarebbe un grande errore, come se si volesse violentarne forzatamente la drammaturgia alla ricerca di significati reconditi che finirebbero per non avere nulla a che fare con un teatro musicale che può piacere o meno, ma ha ancora un fascino coinvolgente, immediato e forse inatteso, qualora lo si rispetti nelle dinamiche teatrali e musicali che lo caratterizzarono alle sue origini, rendendolo modello archetipato di un teatro musicale fatto per divertire il pubblico del tempo. Ed infatti Leo Muscato, che firma la regia dello spettacolo, affidandosi per le scene e i costumi rispettivamente a Federica Parolini e Silvia Aymonino, non cade in questo scontato e prevedibile tranello. Pensa piuttosto ad una ambientazione tradizionale, in una oleografica Napoli del Settecento che pare uscita da una cartolina. Con infiniti campi di scena, scorrono a vista spaccati di interni ed esterni partenopei (la cucina della locanda, il salotto con pareti alle quali sono appesi quadri del Vesuvio in eruzione, la terrazza con i panni stesi e il grande vascello del finale dell’opera) colorati da morbide tinte pastello, dove la mano registica di Muscato mette in essere uno spettacolo fresco e dinamicissimo, vitale e scoppiettante, senza che per un attimo prevalga la noia.

Così vale anche per la bravura degli interpreti, che contribuiscono a dar vita uno dei più begli allestimenti visti negli ultimi anni sulle scene scaligere. Sarebbero da lodare tutti come perfetti nella globalità, ma non si può non esimersi dal mettere in evidenza il dinamismo scatenato del Ciccariello di Raffaele Pe, una sorta di Pulcinella che sfoggia voce di controtenore preziosa nel timbro e di notevole espansione sonora, solo con qualche lieve durezza appena la voce sfoga in acuto. Straordinario, nei panni en travesti di Meneca Vernillo, il tenore Alberto Allegrezza, parte che sembra derivare dalla tradizione antica delle nutrici del teatro musicale seicentesco, con tutto il loro grottesco sarcasmo. Bravissime sono Francesca Aspromonte e Chiara Amarù, che donano alle rispettive parti di Carlo Celmino e Belluccia Mariano, i due innamorati che dopo mille traversie e tradimenti si riconciliano, voci stilisticamente irreprensibili e creazioni sceniche levigate ed insieme eleganti. Fascinosa la femminilissima Ciomma Palummo del soprano Francesca Pia Vitale e assolutamente perfetta l’incisiva prova del tenore Antonino Siragusa come Col’Agnolo. La nutritissima locandina di interpreti mette in luce ancora il timbro controtenorile scuro e morbido di Filippo Mineccia (Titta Castagna) e la verve comica inimitabile del buffo Marco Filippo Romano nei panni di Rapisto. Completano il cast Filippo Morace (Federico Mariano) e due solisti della Accademia della Scala, Matias Moncada (Assan) e Fan Zhou (Na Schiavottella).

Il tutto è condotto musicalmente con finezza da Andrea Marcon, alla guida dell’orchestra scaligera con strumenti storici integrata con La Cetra Barockorchester, quindi con sonorità “barocchizzate” effervescenti e tutte in punta di penna, come se il suono mettesse in moto ed animasse statuine di porcellana che diventano personaggi sì stereotipati, come lo sono spesso quelli dell’opera buffa, ma carichi di scoppiettio teatrale che, come una fiammella, accende scena dopo scena la sorgiva energia di questa vivace commedia, fino ad un finale a tarantella che manda il pubblico in visibilio. Spettacolo davvero memorabile.

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LUCIA DI LAMMERMOOR di Gaetano Donizetti

Dopo questo raro Vinci, ecco un titolo popolarissimo come Lucia di Lammermoor di Donizetti, forse il più atteso titolo della stagione di quest’anno. Nuovo allestimento, piuttosto deludente, firmato da regia, scene e costumi di Yannis Kokkos, che realizza uno spettacolo alla prima molto contestato dal pubblico, di ambientazione romantica un po’ gotica che vira verso la contemporaneità. In scene tanti cappotti neri, misteriose luci notturne, grandi statue di cani e cervi visibili fra i pochi arredi di uno spettacolo sostanzialmente minimalista che nel finale mostra inquietanti monumenti funerari evocanti l’idea della morte. Le tinte scure sono anche la cifra che attraversa la direzione di Riccardo Chailly, al quale vanno riconosciuti non solo meriti di una concertazione di grande impatto drammatico, ma anche di aver fortemente voluto l’edizione integrale dell’opera, proposta nell’edizione critica curata da Gabriele Dotto e Roger Parker. Vengono riaperti tutti i tagli di tradizione, così come ripristinati i da capo delle cabalette, e fin qui nulla di veramente speciale, perché in altri casi già era avvenuto. Ma in questa occasione si sono sentiti particolari davvero inediti. Fra i tanti citiamo il più originale: le poche battute di testo che preparano la cabaletta di Lucia al termine della scena della pazzia, individuabili nella breve ma importante frase che serve d’aggancio alla cabaletta: inizia con il verso “Presso la tomba io sono” e si conclude con “già dall’affanno oppressa, gelido langue il cor. Ascolta!”, cui segue subito l’attacco del noto “Spargi d’amaro pianto”. Vi è poi l’abolizione della tradizionale e nota cadenza con il flauto e il ripristino dell’originale armonica a bicchieri che dona alla scena della pazzia un effetto straniante, molto attinente alla dimensione psichica della sconquassata mente della protagonista. Più incerte sono invece le scelte sulle tonalità originali, non sempre rispettate, forse per agevolare la protagonista e non privarla delle puntature acute che qua e là vengono mantenute. Eppure è indubbio che l’operazione di recupero della versione originale sia stato uno dei valori aggiunti di questa attesissima Lucia scaligera, premiata dalla presenza da due protagonisti di sicuro prestigio e richiamo.

Lisette Oropesa (Lucia) è una cantante che gode di una pressione mediatica forse superiore ai meriti di chi vede in lei una virtuosa in senso assoluto. Cosa che non è, in particolare se messa a raffronto con alcune Lucie di riferimento del recente passato. Eppure è un’artista che sa utilizzare al meglio i suoi mezzi. Non possiede forse un timbro bellissimo, seppure luminoso e ben proiettato, ma usa la voce ad arte e regala una prestazione artisticamente coinvolgente e stilisticamente pulita, con un bel legato e alcuni abbandoni patetici ricci di febbrile commozione. Seppure, come detto, non sia una virtuosa in senso assoluto e qualche nota risulti qua e là non del tutto a fuoco, il carisma dell’interprete è però indubbio, così da fare di lei una Lucia che vince per la modernità del modo di porsi sulla scena, rendendo il suo canto sempre al servizio di un personaggio vivo e palpitante, mai leziosamente asservito alle ragioni di un canto fine a se stesso, scontatamente acrobatico, freddo o distaccato.

Al suo fianco c’è un altro big della scena lirica internazionale, il tenore Juan Diego Flórez. Eppure Edgardo non sembra essere la parte più consona per corde tenorili comunque capaci di impennate in acuto sicure e di sfumature che il suo canto ha col tempo acquisito e che, unitamente alla consueta limpidezza d’emissione, sfoggia nel soffice attacco di un “Tu che a Dio spiegasti l’ali” sfumato, delicato e teneramente commosso. Ma per essere un tenore romantico a tutto tondo a Flórez manca l’espansione del suono, piuttosto contenuto per una sala grande come quella della Scala, ma soprattutto l’accento bruciante necessario all’invettiva del secondo atto e l’involo dell’eroe romantico maledetto perseguitato dal destino che in una notte di tempesta (e qui mi riferisco alla scena della torre con Enrico) fa attraversare il suo canto da quei fulmini argentei che la voce delicata del celebre tenore peruviano non possiede. Non è certo un rilievo da fare ai meriti del suo canto, indubbi e indiscutibili, ma appunto alla reale attinenza vocale ad un personaggio risolto con l’impegno del fuoriclasse più che con caratteristiche vocali giuste per la parte.

Sostanzialmente corretto il baritono Boris Pinkhasovich nei panni da baritono vilain di Enrico, così come un po’ ruvido ma espressivamente tornito nell’espressione l’ottimo Raimondo di Carlo Lepore. Nei ruoli di contorno Leonardo Cortellazzi (Arturo) e Giorgio Misseri (Normanno) sono un vero lusso, mentre Valentina Pluzhnikova (Alisa), allieva della Accademia della Scala completa la locandina degli interpreti di una Lucia di Lammermoor accolta dal pubblico della recita di domenica 23 aprile con applausi a non finire.

Foto Brescia e Amisano.

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