Lee Miller, la fotografa che documentò l’Olocausto

La pellicola che narra l’epopea di Elizabeth “Lee” Miller inizia dalla fine, per poi riportarci indietro di una quarantina d’anni seguendo il filo dei ricordi della protagonista. L’idea di iniziare dalla fine o in medias res, nel mezzo delle vicende, non è certo nuova, visto che è stata utilizzata già qualche secolo fa da Virgilio per l’Eneide, quando il protagonista racconta a Didone della sua fuga da Troia in fiamme tramite analessi, quella che oggi definiamo flashback. Anzi, ultimamente questa tecnica narrativa è talmente abusata che la vera novità sarebbe di raccontare una storia partendo dall’inizio.

Ma nel caso di “Lee Miller” (titolo originale semplicemente “Lee”, per l’esordio alla regia di Ellen Kuras) questa scelta ha un senso, visto che la sceneggiatura è basata sul saggio “The Lives of Lee Miller” scritto dal figlio della fotoreporter, Antony Penrose, dopo la morte della madre, forse anche come forma di confronto e restituzione postumi rispetto a un rapporto problematico, visto il carattere non facile di questa donna, specie dopo le traumatiche esperienze vissute durante la II Guerra Mondiale.

Tuttavia, il film sorvola su molte vicende, eccessi e intemperanze della protagonista, accennando solo di sfuggita ad alcuni episodi anche cruciali, per concentrarsi su quello che è il nocciolo forse più significativo della sua vita densa e tumultuosa. Il racconto infatti riavvolge il nastro solo fino al 1937, quindi ben dopo gli anni da fotomodella, da musa e compagna di Man Ray, degli esordi come fotografa, dell’adesione al surrealismo e del breve matrimonio in terra egiziana. È il momento dell’incontro “fatale” con il curatore d’arte Roland Penrose, che dopo qualche anno sarebbe diventato suo marito. Soprattutto, è il periodo carico di tensione che precede lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Quando iniziano le ostilità, Lee e Roland si sono già trasferiti da tempo in Gran Bretagna, parzialmente al riparo dall’inferno nazista che imperversa nell’Europa continentale, ma la guerra incide profondamente anche oltre Manica, tanto che Roland viene richiamato sotto le armi, mentre Lee vola temporaneamente negli Stati Uniti, dove riprende il suo lavoro per la redazione di Vogue a New York. Potrebbe starsene relativamente al sicuro oltre oceano, ma non è nel suo carattere. Occuparsi di moda e generi voluttuari le sembra riduttivo in un momento tragico come quello, quindi sfrutta la sua abilità di fotografa per documentare sulle pagine di Vogue la vita in tempo di guerra a Londra e dintorni, mettendo in luce il ruolo fondamentale, ma spesso ignorato, delle donne impegnate in prima persona nel conflitto. Come appartenente al London War Correspondents Corp, si trova in una posizione singolare: le donne corrispondenti di guerra sono infatti rarissime, e spesso non hanno accesso a determinati siti, ma in compenso lei può entrare dove i maschi non possono, mostrando le cose da un’angolazione sensibilmente differente.

È in queste circostanze che conosce il fotografo statunitense David Scherman, corrispondente di Life, con il quale instaura un sodalizio destinato a durare tutta la vita. Ed è proprio insieme a lui che riesce a varcare la Manica al seguito delle truppe Alleate poco dopo lo sbarco in Normandia, scavalcando il rifiuto opposto dell’esercito britannico e facendosi autorizzare da quello statunitense. Uno snodo cruciale, che mette in luce la determinazione di Lee, una donna che evidentemente non accettava un “No” come risposta, ma anche la sua natura di cittadina del mondo, capace di essere americana, inglese, francese o qualunque altra cosa servisse in quel momento, perfettamente a suo agio in ogni ambiente e circostanza, dalle atmosfere patinate degli atelier di moda alle infermerie da campo, fra i feriti di guerra.

Inoltrandosi all’interno di un’Europa progressivamente liberata dall’avanzata degli Alleati, Lee e Scherman documentano le macerie delle strutture, dei corpi e delle anime dopo l’occupazione nazista e il passaggio del fronte. Episodi cruciali, come la battaglia di Saint-Malo, dove viene utilizzato per la prima volta il napalm, la liberazione di Parigi, dove Lee ritrova gli amici francesi, o perlomeno quelli che sono sopravvissuti alla furia nazista. E poi l’arrivo in Germania, dove Scherman le scatta l’iconica foto nella vasca da bagno di Hitler, nell’appartamento del Furher a Monaco di Baviera. Ma soprattutto, la sconvolgente esperienza di essere fra i primi a documentare l’orrore dei campi di sterminio, una testimonianza fondamentale, ma che la scosse nel profondo, tanto da causarle negli anni a seguire uno shock post traumatico profondo, tale da procurarle crisi depressive e da spingerla verso l’abuso di alcol.

Anche su quest’ultima parte della sua vita il film sorvola, limitandosi, come si diceva, ad accennare al rapporto conflittuale con il figlio. Un conflitto in parte risolto da quest’ultimo tramite la stesura di una biografia della madre e la valorizzazione del suo lavoro e della sua vita, in larga parte sovrapponibili.

Un lavoro di riconoscimento del valore di questa donna, modella, musa, reporter e non ultimo madre, che viene fatto proprio anche da una Kate Winslet ormai lontanissima dalle atmosfere che la resero famosa all’epoca di Titanic, protagonista assoluta di un film del quale è anche produttrice e nel quale presta voce e corpo a una straordinaria figura di spicco del Novecento, quella Lee Miller che del “secolo breve” è stata ed è tuttora fra i principali testimoni, grazie ai suoi scatti iconici, che ci vengono doverosamente proposti sui titoli di coda del film.

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