Di nuovo “Liberi e Forti”, un secolo dopo

L’appello ai “Liberi e Forti” di don Luigi Sturzo, del 18 gennaio 1919, rappresentò a tutti gli effetti, l’ingresso dei cattolici sul palcoscenico della politica italiana. Avvenimento che il comunista Antonio Gramsci qualificò come il più importante dopo il compimento dell’unità nazionale nel 1861. I cattolici erano rimasti infatti fuori dall’arena pubblica, a causa del non expedit, il divieto a partecipare alla politica nazionale imposto dal Pontefice.

Eppure cattolica era la stragrande maggioranza della popolazione italiana e soprattutto lo erano le classi popolari, ancora non influenzate dall’ideologia socialista. Il Partito popolare nasceva dunque come alternativa sia al socialismo massimalista che al liberalismo elitario, avendo come rifermento la Rerum Novarum: l’enciclica di Leone XIII che aveva enunciato il pensiero cattolico sulla questione sociale.

Alle elezioni del 1919, il Ppi ottenne il 20 per cento dei suffragi: un buon risultato per una forza esordiente, ma poi popolari, socialisti e liberali non seppero trovare un’intesa lasciando via libera al fascismo. Ci vollero venticinque anni per riprendere il filo conduttore. Dopo la Seconda guerra mondiale, in Italia, con la Dc, così come in Belgio, Francia e Germania, le forze del popolarismo vennero catapultate al governo. L’avvio del percorso di integrazione europea, nella pace e nella libertà, fu il grande merito di quella classe dirigente, oltre ad aver favorito, nei rispettivi Paesi, un notevole sviluppo economico e sociale.

E oggi? Può ancora esservi spazio, in Italia, come tutto sommato accade in Germania con la Cdu di Angela Merkel, per un rinnovato ruolo del cattolicesimo democratico? Il dibattito è aperto. Nessuno ovviamente pensa di dar vita ad un partito basato sull’identità cattolica – e del resto identitari non lo furono né il Ppi di Sturzo, né la Dc di Alcide De Gasperi e Aldo Moro – bensì di incamminarsi in una sfida più ambiziosa: fare del riformismo cattolico il protagonista, assieme ad altre culture riformiste, di un nuovo rilancio della politica. Rilancio che, innanzi tutto, significa primato della politica sull’economia, e quindi della persona e del suo lavoro rispetto ai dogmi del mercato. A partire da questi valori di fondo può delinearsi un’agenda riformista credibile e sensata, che abbia tra le sue priorità: un salario minimo per legge; una fiscalità che agevoli le famiglie; una riforma del catasto immobiliare nel segno dell’equità; un grande piano di manutenzione del territorio; un ampio programma di riqualificazione energetica.

Un’agenda che preveda anche la riscoperta di una democrazia che nasce dal basso e non che si manifesti solo ogni cinque anni, al momento delle elezioni, in una logica quasi plebiscitaria all’insegna del “qui comando io, perché mi avete votato”. Frase che, nelle intenzioni di chi la pronuncia, dovrebbe tappare la bocca a qualsiasi dissenso. E in questa, per così dire, rifondazione democratica dovrebbe in particolare esservi il ritorno alle preferenze sulla scheda elettorale. Con la preferenza saranno finalmente i cittadini, e non i capi bastone, a scegliere i candidati: un premio alla competenza e non, come avviene adesso, alla fedeltà al leader di turno. Un salto di qualità nella nostra rappresentanza parlamentare, più necessario che mai per accrescere la qualità della nostra politica.

In definitiva, un’agenda in cui il patrimonio ideale e culturale del cattolicesimo democratico possa dare un contributo al bene comune. Quasi un appello ai “Liberi e Forti” un secolo dopo.

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