“La forza del destino”, ovvero il dibattersi nell’avversità dell’esistenza

L’opera di Verdi al Teatro Municipale di Piacenza

Il Municipale di Piacenza è un teatro coraggioso, dove Cristina Ferrari, che ne è la guida artistica competente e ispirata, mette insieme stagioni mai banali. Da subito, appena scorso il cartellone, viene voglia di seguirlo. Quello di quest’anno è particolarmente allettante (oseremmo dire fra i migliori d’Italia) ed ha in serbo appuntamenti imperdibili, come il prossimo Andrea Chénier di Giordano e Serse di Händel.

Di Giuseppe Verdi, le cui opere sono in queste terre particolarmente attese e gradite dal pubblico, dopo La traviata, si è messo in scena un nuovo allestimento de La forza del destino. Si sono scritti fiumi di inchiostro e saggi illuminanti sulla singolarità di questa partitura così atipica nella produzione verdiana. Si sono sprecati, spesso anche con spropositata esagerazione, aneddoti sulla sua fama di opera portatrice di sventure; figuriamoci poi eseguirla, facendo i debiti scongiuri dopo tutte le sciagure capitate sulla scena in diverse edizioni della sua storia interpretativa. Lasciata da parte l’aneddotica, è certo che su questa partitura, in cui il retaggio di un destino avverso grava non solo sulla sua pratica esecutiva ma anche sulla trama stessa che contraddistingue il libretto di Francesco Maria Piave, pesa oggi un altro problema di non poco conto, che l’ha resa in anni recenti sempre più difficile da proporre per la carenza di interpreti in grado di eseguirla senza scendere a troppi compromessi. Perché La forza del destino è un’opera per grandi voci, quelle capaci di “resistere” alla tensione interna ed esterna stessa che si scatena dagli accadimenti che concorrono a determinare la sciagura che pesa sui suoi protagonisti (Leonora, Don Alvaro e Don Carlo); un destino ineluttabile, che fatale insiste su un’esistenza dove solo il rifugio nel credo religioso sembra dare tregua all’inarrestabile fatica di esistere, inseguendo un amore che sembra impossibile da realizzare, e dove il desiderio di vendetta assume i tratti dell’inesorabilità. Ci sono, è vero, i quadri d’assieme, le scene d’ambiente, quelle dei campi di battaglia, quelle del popolo affamato e quelle più intimamente monastiche, che donano all’opera l’immagine di un grande affresco, ma tutto serve a rendere l’ansia febbrile del destino più accentuata e, forse per questo, così travolgente.

A Piacenza, dove come si è detto si è osato metterla in scena in tempi in cui reperire voci adatte per le esigenze richieste è impresa a dir poco ardita, si è agito con saggezza ed i risultati ci sono stati, con sorprese di non poco conto. Si sapeva che Anna Pirozzi fosse uno dei migliori soprani italiani di oggi e che Verdi le fosse congeniale, ma in questa occasione, come Leonora, al debutto nel ruolo, ha offerto una delle prove più convincenti della sua carriera già internazionalmente affermata. Certo resta un soprano lirico, che si ritiene lirico spinto, così che in acuto mostra qua e là la tendenza a spingere i suoni, con conseguente fissità di emissione in talune note estreme, quando emesse a piena voce. Ma le riserve finiscono qui. Per il resto si ammira la bellezza del timbro, la luminosità del suono nei centri, senza che mai un accenno al vibrato le comprometta la linea, e soprattutto – e qui sta il bello – la capacità di cantar piano e di sfumare i suoni. Ed ecco momenti davvero emozionanti, come il commosso e morbido attacco di “Madre, pietosa Vergine”, le delicate frasi smorzare nel duetto con il Padre Guardiano, la preghiera “La Vergine degli Angeli” e un “Pace, pace, mio Dio!” cantato così bene (bellissima la messa di voce sulla nota iniziale), anche sul piano espressivo, da suscitare applausi e richieste di bis al termine dell’aria, concesso dalla cantante alla recita del 20 gennaio della quale riferiamo.

Il restante cast le è inferiore, eppure segnala in Luciano Ganci, Don Alvaro, le qualità di un tenore che ha squillo, bella linea e ottima proiezione del suono. Non si risparmia mai e canta con generosità, anche se sarebbe ingiusto nascondere che per lui questa parte sia un po’ troppo drammatica, sconsigliabile da mantenere stabilmente in repertorio. Per fortuna la bacchetta di Francesco Ivan Ciampa lo sostiene e avvantaggia sempre, lo fa respirare e lo aspetta con le giuste pause nelle grandi frasi che concludono l’aria “O tu che in seno agli angeli”, che diversamente gli sarebbero state probabilmente fatali. Alla fine lo si ammira e questo è ciò che conta. Il baritono Kiril Manolov, Don Carlo, è invece assai in difficoltà e si becca anche qualche ingeneroso buu del pubblico. Avrebbe voce interessante, ma di lui si riparlerà quando l’emissione sarà affinata e il suono meno opaco e ingolato. Vero lusso di questa produzione sono Marko Mimica, voce di basso dal colore forse lievemente chiaro per la parte, eppure messa al servizio di una visione interpretativa che lo vede delineare un Padre Guardiano non attempato, ma di nobile e giovane avvenenza scenica, e Marco Filippo Romano, un Fra Melitone che è difficile immaginare migliore, giocato sulla parola, sull’incisività degli accenti e su un fraseggio ben commisurato alla brillante realizzazione scenica. Di tutto rispetto e di bel timbro anche la Preziosilla di Judit Kutasi. Funzionali gli altri: Mattia Denti, Il marchese di Calatrava, Cinzia Chiarini, Curra, Juliusz Loranzi, Un alcade, un chirurgo e Marcello Nardis, Mastro Trabuco.

Della direzione di Francesco Ivan Ciampa, alla testa dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza istruito da Corrado Casati, si apprezza, se non la vibrante verdianità infuocata, che in un simile contesto vocale sarebbe apparsa forse inopportuna, il senso del palcoscenico, la tenuta complessiva del discorso narrativo e la finezza di alcuni abbandoni che hanno fatto della sua bacchetta un tassello determinante di questa produzione.

Dello spettacolo firmato dalla regia di Italo Nunziata, con scene di Emanuele Sinisi e costumi di Simona Morresi, si nota subito la scelta di ambientare l’opera nella seconda metà dell’Ottocento e di puntare ad un minimalismo scenografico ridotto all’osso, con una grande cornice, un tavolo, poche sedie, qualche dipinto (di Hannu Palosuo) e poco più. Funzionale nei cambi di scena (ci credo, con così poco!), ma freddo, e registicamente poco compiuto, anche quando nelle scene di popolo sembra evocare climi pittorici alla Giuseppe Pellizza da Volpedo. Al pubblico sembra piacere, che numeroso alla fine applaude festosamente tutti gli interpreti. La forza del destino questa volta, al Teatro Municipale di Piacenza, non ha portato iella a nessuno!

Credit foto Cravedi.

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