Giulio Andreotti, cento anni dalla nascita

Meno di sei anni ci separano dalla morte di Giulio Andreotti e già ne stiamo celebrando il centenario della nascita, avvenuta a Roma, il 14 gennaio 1919. Una vita davvero lunga la sua, 94 anni: attraversando in pratica la vicenda politica italiana dal dopoguerra sino al primo decennio del XXI secolo. Sette volte presidente del Consiglio, ministro in buona parte dei governi tra gli anni Cinquanta e Ottanta: inossidabile simbolo del potere democristiano e per molti versi immagine della stessa Prima repubblica. Emblema di quella logica di mediazione, di costruzione degli equilibri e della ricerca di compromessi che sono un po’ l’essenza della politica e, in fondo, della democrazia. Andreotti era figlio della stagione del proporzionale con la Dc perno del sistema politico e lui arco di volta di quel partito. Più di Aldo Moro il sottile tessitore, scomparso tragicamente troppo presto, o di Amintore Fanfani, il brillante condottiero, penalizzato da un carattere forse troppo volitivo, che gli fece perdere molti sostegni nello stesso scudo crociato.

Nella sua lunga vicenda politica non poche le situazioni più o meno discusse o discutibili, con un campionario di personaggi, da Michele Sindona a Licio Gelli, a Mino Pecorelli a Salvo Lima, alquanto ingombranti. Sino all’accusa più pesante e clamorosa di concorso esterno in associazione di tipo mafioso che nella primavera del ’93 lo portò sotto processo da cui venne assolto, pur con il chiaro-scuro di una prescrizione per quanto rilevato fino al 1980. In ogni modo, nel lungo iter giudiziario Andreotti, a differenza di tanti altri imputati eccellenti prima e dopo di lui, si mostrò sempre rispettoso dei giudici e dell’indipendenza della magistratura: una lezione di senso dello Stato che non soltanto gli deve essere riconosciuta ma che lo pone ad esempio per molti altri uomini politici.

Rimase sempre un uomo della Prima repubblica, con i suoi riti e le sue consuetudini tra caminetti, vertici e rimpasti. Modalità di confronto entro le maggioranze di governo e con le forze di opposizione, fatte di reciproco rispetto che la Seconda repubblica ha immaginato di rimuovere e che leader come Silvio Berlusconi o Matteo Renzi hanno sempre disprezzato, mostrando di non capire cosa sia realmente la politica. Difficile dire cosa oggi rimane di lui nella politica italiana. Più facile individuare quello che non gli appartiene affatto, a cominciare proprio dallo scarso rispetto per le istituzioni e da un certo dilettantismo demagogico che affiora ovunque nell’affrontare i problemi del Paese.

Andreotti, con ragione, considerava la politica come l’arte del possibile, quasi esaltando l’ordinaria amministrazione rispetto alle grandi visioni. Eppure nel suo pragmatismo privo di voli pindarici, emergono alcuni decisivi principi di fondo: da una solidarietà interclassista, come elemento di coesione nazionale, alla prospettiva dell’integrazione europea, in cui collocava il futuro dell’Italia, alla collaborazione tra i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, alla distensione internazionale come fattore di sviluppo dei popoli. Valori che orientarono la sua vita politica e a cui rimase sempre fedele.

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