“Enrico di Borgogna” e “Il castello di Kenilworth” per il Donizetti Opera 2018

Due rari titoli confermano l’alto livello delle proposte del Festival bergamasco.

Per chi ancora non se ne fosse accorto, ma credo siano ormai in pochi, il Donizetti Opera è divenuto, insieme al Rossini Opera Festival di Pesaro e al Festival Verdi di Parma, la più importante rassegna musicale operistica italiana monografica dedicata ad un compositore, al quale si rende l’omaggio che merita nella città che gli diede i natali: Bergamo. Il Teatro Donizetti è in corso di restauro e così, come per altro avvenne anche l’anno passato, tutti gli appuntamenti del Festival si svolgono al Teatro Sociale, nella Bergamo Alta, occasione preziosa per godere, oltre che della musica, anche delle bellezze artistico-architettoniche della città. Francesco Micheli, che da una manciata di anni è alla guida artistica del Festival, lo ha arricchito non solo attraverso la proposta di un’oculata scelta di titoli inediti o poco rappresentati, ma anche coinvolgendo la città a trecentosessanta gradi con innumerevoli iniziative. Insomma, un appuntamento annuale imperdibile.

ENRICO DI BORGOGNA

Quest’anno si è scelto di aprire il Festival con un titolo quasi sconosciuto, anche agli estimatori donizettiani: Enrico di Borgogna. Non è la prima opera di Donizetti, perché la precede la composizione del monologo drammatico Pigmalione (eseguito a Bergamo l’anno passato), ma la prima ad essere rappresentata, per un avvenimento di non poco importanza: la riapertura a Venezia del Teatro di San Luca nel 1818. Sul frontespizio del libretto di Bartolomeo Merelli si legge melodramma per musica, ma invero il genere al quale appartiene è quello semiserio. Lo è per la presenza di un personaggio buffo, Gilberto, goffo tuttofare del tiranno, anche se l’argomento narra dell’ascesa al trono del protagonista, Enrico, che smaschera l’usurpatore Guido, e del suo amore osteggiato con Elisa, fino allo scioglimento dell’intreccio narrativo in un lieto fine che manda tutti a casa felici e contenti pur se lo snodo della vicenda sembrerebbe far prevalere i toni del dramma. Eppure la musica si muove in senso contrario, imbevuta di un rossinismo dal quale non si stacca, utilizzandone formule musicali, virtuosismi vocali ed anche facendo ricorso ad un ruolo di mezzosoprano “en travesti” per il protagonista. Dire che questa partitura sia una capolavoro sarebbe troppo, eppure di musica ve ne è in abbondanza e la revisione critica della partitura di Anders Wiklund, attuata anche sulla recente riscoperta di una copia autografa conservata nella Biblioteca Reale di Copenaghen, ha permesso di ammirare il meglio di questa “opera prima” di un genio dell’operismo ottocentesco, che muoveva i suoi primi passi emulando appunto il genio rossiniano, mescolandolo con suggestioni musicali ereditate, soprattutto nello sviluppo della forma, dal suo maestro: Giovanni Simone Mayr.

L’edizione bergamasca ha potuto contare sulla carta vincente di un allestimento affidato alle cure registiche di Silvia Paoli, che insieme alle scene di Andrea Belli e ai costumi di Valeria Donata Bettella hanno pensato ad uno spettacolo che punta tutto sull’ironia, seguendo un percorso che ne fa un’opera buffa a tutti gli effetti, quasi non curandosi della serietà del soggetto. Azzeccata la scelta di mettere in scena l’opera da un backstage, con un palcoscenico che pare quello di un teatrino di burattini che, girando su se stesso, rivela il retropalco o la scena arredata di volta in volta da vivaci fondali colorati che calano dall’alto o da quinte e oggetti ammassati ai lati della scena, sistemati di volta in volta dagli addetti al palcoscenico. L’idea è per certi simile a quella utilizzata per il recente Ernani di Verdi scaligero dal regista Sven-Eric Bechtolf; mentre lì l’ironia appariva però forzata ed inopportuna, qui invece la conformazione musicale dell’opera stessa, dove i personaggi sono marionette più che caratteri veri, sembra addirittura valorizzarne lo spirito, in un mix di leggerezza, eleganza e brio che la bacchetta di Alessandro De Marchi esalta appieno, regalando alla testa del complesso Academia Montis Regalis e del Coro Donizetti Opera una lettura musicale raffinatissima eppure brillante, calibrata nei tempi ed effervescente in dinamica e ritmica. Il cast lo asseconda, anche perché tutti recitano a meraviglia e sembrano calati perfettamente nello spirito leggero e a moto perpetuo impresso dalla regia. Partiamo dall’Enrico del mezzosoprano Anna Bonitatibus, cantante che riesce addirittura a sublimare alcune lieve durezze in acuto nascondendole ad arte dietro un’eleganza e una finezza nel porgere che subito conquistano. Anche Sonia Ganassi, che lotta qua e là con una accentuata disomogeneità fra i registri, è una Elisa di croccante incisività vocale e scenica.
Dei due tenori, Francesco Castoro, Pietro, è sembrato assai maturato rispetto a mie passate prove d’ascolto ed ha voce ben proiettata e di bel timbro, mentre Levy Sekgapane è un Guido dalla voce piuttosto piccola ma svettante in acuto, dove utilizza ardite emissioni di testa. Luca Tittoto dona sonora consistenza vocale al buffo Gilberto (sarebbe invero l’unico personaggio comico dell’opera, anche se questo allestimento, come si è detto, carica di ironia un po’ tutti i personaggi), facendone un personaggio teatralmente spassoso ma sempre nel segno del buon gusto. Infine si ammirano il bravo Lorenzo Barbieri, Brunone, Matteo Mezzaro, Nicola e Federica Vitali, Geltrude.

IL CASTELLO DI KENILWORTH

Secondo appuntamento, altrettanto atteso del Festival, Il castello di Kenilworth, che è opera in cui Donizetti diviene se stesso; non aveva ancora del tutto abbandonato le formule vocali rossiniane, ma nel 1829, quando l’opera andò in scena al Teatro di San Carlo di Napoli, il compositore si avvicinava a passo lesto verso l’abbandono del dramma di impronta classicista e si apriva al romanticismo. Tutto si riverbera anche nella scelta del soggetto, il cui libretto di Andrea Leone Tottola utilizza, anche se con estrema libertà, un romanzo di Walter Scott. Ed ecco apparire quelli che saranno temi ricorrenti del Donizetti post anni Trenta: l’utilizzo di trame ambientate nell’Inghilterra rinascimentale, lo scontro fra donne rivali in amore e la comparsa della regina Elisabetta I, che poi si ritroverà in Maria Stuarda e Roberto Devereux. Qui spicca il lieto fine, con una Elisabetta che gorgheggia allegramente regalando, da monarca clemente (forse tale scelta fu motivata dal fatto che l’opera venne eseguita in omaggio alla regina Maria Isabella, che per il suo compleanno assistette alla prima), il perdono al suo favorito, l’amato Leicester, sposatosi in segreto con Amelia scatenando la gelosia della rivale. Ci sono già tutti gli ingredienti musicale del Donizetti maturo (il duetto fra Elisabetta e Amelia e il successivo quartetto che conclude il secondo atto sono un vero capolavoro) e la revisione sull’autografo di Giovanni Schiavotti, a cura della Fondazione Donizetti, assicura la “purezza” originaria della prima versione napoletana, che non ebbe quella già ascoltata a Bergamo nel 1989 (allora ne furono interpreti prestigiose Mariella Devia e Denia Mazzola), proposta nella versione successiva, del 1830, quando il compositore pose mano alla partitura revisionandola e trasformando il ruolo tenorile di Warney, destinandolo a voce di baritono. Per declinare al meglio le caratteristiche dell’opera sono come sempre necessari cantanti di levatura superiore, sia in termini vocali che interpretativi.

A Bergamo si è assemblato un cast di alto livello, con due soprani di gran nome. Inutile negare che Jessica Pratt, Elisabetta, sia una virtuosa in senso assoluto. Qualche volta appare un po’ fredda nell’articolazione espressiva, eppure nel canto d’agilità è precisa e senza esitazione alcuna, trilla e sfoggia acuti fuori ordinanza perfino troppo arditi, come dimostra nell’aria di sortita e nel rondò finale, applauditissima dal pubblico. Decisamente meno persuasiva Carmela Remigio, Amelia, la cui musicalità è indiscutibile, così come l’approccio espressivo degno di riguardo, ma vocalmente appare appannata ed il suono, anche nella bellissima aria accompagnata dalla glassarmonica del terzo atto, “Par che mi dica ancora”, meno libero di espandersi; segno che gli anni passano e la classe dell’interprete resta tale seppur inferiore, almeno in questa occasione, all’efficacia della cantante.

Il giovane e promettentissimo tenore Xabier Anduaga, Leicester, chiamato a sostenere una parte, davvero impervia, che Donizetti scrisse per il celebre tenore rossiniano Giovanni David, mostra una voce di bell’impasto timbrico e di evidenza sonora fuori dal comune. Ma dinanzi alla temibile aria di sortita del primo atto sembra tecnicamente non ancora del tutto pronto, vuoi per la tendenza ad appesantire l’emissione spingendo, vuoi per la difficoltà nel girare i suoni in acuto in modo da renderli più rotondi e, soprattutto, in stile secondo le esigenze della vocalità ottocentesca, che richiederebbe un canto più alato. Di tutto rispetto la prova di Stefan Pop, nei panni del malvagio Warney, incisivo e di solida tenuta vocale, alle prese con una parte per baritenore. Eccellente il basso Dario Russo, Lambourne di bel rilievo vocale e ottima presenza scenica, e valida pure Federica Vitali, Fanny. A tenere le fila musicale dello spettacolo è il direttore musicale del Donizetti Opera, Riccardo Frizza, che alla testa della Orchestra Donizetti Opera (il Coro Donizetti Opera qui come nell’Enrico di Borgogna è istruito da Fabio Tartari), regala una direzione musicale perfettamente controllata nelle sonorità, attenta nell’accompagnare le voci e sensibile al senso teatrale dell’opera. Insomma, un direttore che, da subito lo si capisce, ama Donizetti e ne conosce stile e respiro. Il nuovo allestimento, stilizzato e molto minimale, è firmato dalla regia di Maria Pilar Pérez Aspa, con scene di Angelo Sala che si limitano ad un bianco piano a scacchiera inclinato verso il proscenio delimitato da quinte nere (elementi scenici ridotti all’osso: una cancellata-prigione, un lungo tavolo, qualche tappeto srotolato all’occorrenza per raffigurare un prato o stemmi regali e poco più) e costumi in stile rinascimentale di Ursula Patzak. Sviluppa la vicenda con puntualità e chiarezza, ma senza grandi colpi d’ala registici.

Pubblico numeroso per entrambi gli spettacoli, accolti da un successo degno del valido lavoro che di anno in anno conferma la crescente qualità di un Festival che il prossimo anno ha già annunciato il cartellone, con un terzo titolo in più rispetto a quest’anno: Pietro il Grande, L’ange de Nisida (opera ritrovata e che per la prima volta verrà eseguita in forma scenica) e Lucrezia Borgia.

Foto di Gianfranco Rota

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