Il governo della decrescita

Dopo la votazione, di pura valenza ideologica e priva di qualsiasi effetto giuridico, del Consiglio comunale di Torino, contro il treno ad alta velocità in val Susa (il famoso o famigerato Tav), vedremo come si muoverà il governo. Vedremo cioè se utilizzerà questo voto per bloccare definitivamente l’opera o se, come saggezza imporrebbe, prenderà in considerazione il fatto che l’intero universo produttivo torinese: imprese, sindacati, mondo delle professioni, come si è visto nella recente manifestazione “Si Tav”, è compatto nel ribadire la necessità di realizzare la nuova linea ferroviaria. Del resto è evidente che un blocco dell’opera condannerebbe il Piemonte all’irrilevanza perché verrebbe tagliato fuori dai grandi corridoi di traffico merci che dall’Atlantico raggiunge gli Urali. Le merci passerebbero infatti trecento chilometri più a nord, lungo l’asse Strasburgo-Vienna, marginalizzando l’intero Nord Italia.

Per intanto da parte del governo, in particolare dalla sua componente pentastellata (quella contraria al Tav) viene detto che occorre attendere l’esito dell’analisi costi-benefici sulla ferrovia. E sia. C’è però da sperare che questa analisi venga condotta in maniera seria ed obiettiva. Che consideri cioè che in infrastrutture di questa entità i benefici sono da spalmarsi in un arco temporale di lunghi decenni, forse addirittura un secolo, Basti pensare all’attuale linea realizzata nel 1871 per rendersene conto. Questo mentre i costi vengono, ovviamente, sostenuti nell’immediato.

In ogni modo, come sempre accade, dopo l’indispensabile parere dei tecnici segue la doverosa decisione dei politici. Ed allora c’è da augurarsi che venga smentito il sospetto che già da tempo aleggia sulla maggioranza giallo-verde, ovvero che l’unica cosa che riesce a propinare al Paese sia la ben nota ricetta della “decrescita felice” che poi felice non lo è affatto. D’altronde quando si vede che la Finanziaria appena allestita mette nel piatto ben nove miliardi per una misura assistenziale come il Reddito di cittadinanza, e lesina risorse per la scuola, la ricerca e, naturalmente, per le infrastrutture, il sospetto si tramuta in una quasi certezza.

A ben vedere la battaglia sul 2,4 per cento come rapporto deficit/Pil potrebbe avere un senso se il surplus di spesa pubblica che ne deriva fosse indirizzato verso maggiori investimenti e non invece rivolto a coprire ulteriori spese correnti di chiara matrice assistenziale. Di investimenti, invece, si parla poco e dunque l’eventuale successo – auspicabile solo per mero patriottismo – nel braccio di ferro con la Commissione europea potrebbe, alla fine, rivelarsi una vittoria di Pirro.

Oltre al danno di uno scontro con l’Unione, il cui esito è in realtà tutt’altro che certo, avremo anche la beffa di esserci battuti per misure inadeguate al conseguimento della crescita economica. Saremo cioè pronti a scendere i primi gradini di una decrescita, ovviamente infelice, come lo sono tutte le situazioni che anticipano la penuria. Un pauperismo che, oltre tutto, graverebbe, come sempre in questi casi, sui ceti più deboli.

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