Il compromesso che serve nell’ora della responsabilità

Alla fine la realtà dei fatti si impone sempre sull’artificialità del dibattito politico. È successo a chi governava nella scorsa legislatura. Sta succedendo adesso. I proclami del governo, come gli strali dell’opposizione, si infrangono sulla realtà di una situazione economica, sociale e istituzionale assai problematica. Certo, se il governo desse nel suo complesso e nei singoli componenti, una maggiore impressione di competenza e di autorevolezza non guasterebbe, come pure non guasterebbe, se si smettesse di enfatizzare fenomeni come l’immigrazione, al di là del dovuto.

Perché il problema principale del Paese è quello della stagnazione dei consumi, che colpisce in particolare i due terzi della popolazione a rischio di povertà o comunque in via di relativo impoverimento. Ce lo ha ricordato il presidente della Cei il card. Gualtiero Bassetti, all’ultima Assemblea Generale dei vescovi italiani, che «in un Paese sospeso come il nostro, caratterizzato dalla mancanza di investimenti e di politiche di ampio respiro, gli effetti della crisi economica continuano a farsi sentire in maniera pesante».

Durante l’ultimo decennio della crisi, il ristagno della domanda interna si è accentuato con l’aumentare della povertà, della disoccupazione e il diminuire dei posti di lavoro, della capacità produttiva del Paese, ridotta di un quarto, della svalutazione e della precarizzazione del lavoro, dei tagli allo stato sociale. La nostra economia ha subito contraccolpi maggiori di quelli che provocarono i due conflitti mondiali, e più lunghi, rispetto ai disastri provocati dalle guerre, si profilano i tempi della ripresa.

Questa è la questione. Da più parti si fa opportunamente appello alla riforma dell’Unione Europea, dei Trattati di Maastricht, dello statuto della Bce, ma senza tenere in dovuta considerazione il fattore tempo. Fattore secondario e trascurabile per quel terzo della società che può reggere la continuazione dell’austerità e permettersi di assistere a dibattiti infiniti sulla riforma delle politiche comunitarie. Fattore decisivo, il tempo, invece per i ceti medi e popolari. La politica sta tutta qui: nel definire cosa succede da qui al momento in cui daranno effetti palpabili le riforme che tutti auspicano, frutto di compromessi che tutti invocano e che il buonsenso, se potesse e se i mai sopiti egoismi di classe e di nazione non lo tenessero da troppo tempo imprigionato, li scolpirebbe sui muri delle istituzioni europee.

L’austerità ha peggiorato i conti pubblici italiani.

La realtà invece è più prosaica. In attesa del giorno felice in cui la Bce farà ciò che non solo è ovvio, ma doveroso e necessario fare come tutte le altre banche centrali di questo mondo, di calmierare la speculazione sui bond, di agire come prestatore di ultima istanza non solo nei confronti del sistema bancario (e da dicembre, pare, neanche più quello) ma dell’area economica su cui ha competenza, si sta avviando nei confronti del nostro Paese un iter sanzionatorio dagli sviluppi imponderabili, per tutti, non solo per l’Italia.

In una tale situazione è certo indispensabile invocare un compromesso a livello comunitario per scongiurare un rischioso irrigidimento delle posizioni. Ma il compromesso si fa tra due parti. E, occorre riconoscerlo, nessuno può avere la garanzia che l’altra parte, la Commissione europea, influenzata dalla linea espressa dalla Germania, possa mai accettare un compromesso sulle politiche per la gestione dei conti pubblici dell’Italia.

Esiste invece un altro compromesso che si può e si deve fare. Non la riedizione di stagioni passate di ambigue larghe intese, ma, nella netta distinzione dei ruoli fra maggioranza e opposizione, la ricerca di un compromesso che attiene a quello che Aldo Moro definiva la responsabilità del tempo che ci è dato vivere. Il compromesso che serve, innanzitutto è quello fra le forze politiche del Paese per trovare una posizione comune, da sostenere all’unisono, sulle cose irrinunciabili affinché il Paese possa riprendersi, stante la manifesta insostenibilità per la maggioranza della popolazione delle politiche austeritarie. La maggioranza metta da parte i toni baldanzosi e polemici con le istituzioni europee, l’opposizione non dia adito ad alcun pretesto a chi la accusa di non ostacolare una meccanica applicazione delle rigidità di bilancio, che determinerebbe una nuova stagione di politiche deflattive, spegnerebbe quei pur flebili segnali di speranza nell’avvenire che nonostante tutto sussistono, e contribuirebbe a spingere in direzioni sinora sconosciute il consenso popolare.

Qualunque sarà l’esito del dialogo con Bruxelles sui nostri conti pubblici, una classe politica che si rispetti, non può eludere le sue responsabilità e deve dare prova di saper anteporre gli interessi del Paese a quelli di parte.

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