Il suono come espressione di sentimento e personalità

Il giovane ma già celebre pianista russo Daniil Trifonov al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, per la stagione dell’Unione Musicale.

Questo ragazzo russo, Daniil Trifonov (27 anni), è oggi, come molti sanno, fra i più grandi pianisti al mondo, una vera star internazionale. Ha suonato il 29 ottobre a Bologna, il 30 ottobre a Milano per la Società del Quartetto, il 1° novembre a Torino al Conservatorio Giuseppe Verdi, per la stagione dell’Unione Musicale, dove lo abbiamo sentito, il 2 novembre a Firenze per gli Amici della Musica e il 4 novembre al Teatro Petruzzelli di Bari.
Abbiamo imparato a conoscerlo con Chopin, poi con Rachmaninov e Liszt; le sue incisioni per la prestigiosa etichetta Deutsche Grammophon sono già un must. Nel 2013, all’epoca davvero giovanissimo, si aggiudicò il “Premio Abbiati” della Critica Musicale Italiana con la seguente significativa motivazione: “Per l’eccellenza delle esibizioni italiane del giovane pianista russo portato alla ribalta internazionale dalla vittoria al Concorso “Čajkovskij” e a quello intitolato a Rubinstein di Tel Aviv. Nei suoi recenti concerti si è potuto ammirare la qualità di un pianismo che si muove come sospinto da una intrinseca naturalezza, penetrata come organicamente nell’eloquenza del suono, così da vanificare ogni determinazione troppo affiorante, men che meno effettistica.”

Nel 2016, poi, vinse il Gramophone Award come artista dell’anno e recentemente ha aggiunto un primo Grammy Award alla sua già importante lista di premi.
Oggi Daniil Trifonov torna, per questa tournée in Italia, con un programma originalmente congegnato, che spazia da Beethoven (Andante in fa maggiore WoO 57 – Andante favori; Sonata in mi bemolle maggiore op. 31 n. 3 – La Chasse) a Schumann (Bunte Blätter op. 99; Presto passionato in sol minore op. 22), fino ad arrivare a Prokof’ev (Sonata n. 8 in si bemolle maggiore op. 84), dove regala il meglio di sé. Non che in Beethoven non convinca. Anzi, i tempi veloci, l’analisi di ogni singola nota, il gusto per i contrasti e le filigranature timbriche, ma anche la capacità di oasi liriche di magica, quasi impalpabile sospensione, ci consegnano un Beethoven mai scontato, che rivisita in chiave personale il classicismo, in maniera sempre limpida ed insieme brillante.
I Bunte Blätter (Fogli colorati), formati da quattordici pezzi, sono perle che Trifonov inanella nella più preziosa ed elegante delle collane, con un filo di compiacimento estetico e virtuosistico.
Si diceva della Sonata di Prokof’ev, dove l’introspezione estroversa – detto così parrebbe un ossimoro – tocca il suo apice. Il linguaggio di questa Sonata, appartenente al gruppo delle “Sonate di guerra” (nn. 6, 7 e 8), violento e frastagliato per la natura stessa della musica, viene esaltato da una lettura che sembra favorire l’intimità meditativa e desolata, eppure carica di tensione interna che Trifonov dispiega donando a questa sonata ora filigranata, ora insolente per ardite soluzioni pianistiche, un taglio simbiotico con la sua personalità artistica.

Per altro si era compreso, fin dall’inizio della serata, che la grandezza di Trifonov si declini attraverso componenti che vanno al di là della indubbia maestria tecnica del pianista. Sono la forza dell’interprete e, appunto, la sua personalità che subito appaiono evidenti. Il talento di un grande pianista (parlo di quelli veri, perché di finti talenti ve ne sono fin troppi) si palesa non solo nell’evidenza della sua preparazione e di una sensibilità espressiva tormentata ed interiore, capace di infuocate accensioni e di delicati abbandoni lirici, ma anche nel modo di porsi nei confronti del pubblico, in maniera non studiata (seppur lo star system spesso imponga anche questo), bensì spontanea. Su questo punto desideriamo soffermarci.

Trifonov sale sul palco come spaesato e rivolge uno svelto e garbato inchino rivolto alla platea del Conservatorio Giuseppe Verdi; i convenevoli col pubblico paiono non essere il suo forte: pare intimidito, rigido, con le braccia strette ai fianchi in segno di difesa, quasi impacciato, vagamente smarrito dinanzi al cimento che è in procinto di iniziare, per il quale sembra come pervaso da una leggera inquietudine per ciò che lo aspetta, o forse, più semplicemente, già rapito dalla musica. Si siede rapido al piano e attacca a suonare. Da quel momento scatta il miracolo; tutto si anima, prende vita, trasporto ed emozione nella trasfigurazione di una visione ottocentesca dell’essere artista, fortemente esteriore ed insieme introspettiva; insomma, come si è soliti dire, molto “romantica”. Le vibrazioni del corpo, la schiena talvolta curva verso la tastiera nei momenti di maggiore intensità, i movimenti del capo e la mimica facciale che sembrano caricare di significato ciascuna nota donandole il giusto pathos, fanno parte di un modo di essere musicista che affascina da subito il pubblico, colpito, come ha ben scritto il pianista e critico musicale Gian Francesco Amoroso, da questo “sublime indagatore delle note”.
Sala gremita di pubblico, per una serata da ricordare.

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