Intrighi amorosi in un giardino della psiche

La finta giardiniera di Mozart al Teatro alla Scala nel bello spettacolo di Frederic Wake-Walker.

La finta giardiniera di Mozart non è certo opera di repertorio e la stessa Scala l’aveva proposta solo una volta, nel lontano 1970 (con una ripresa l’anno successivo), alla Piccola Scala. Ora vi ritorna con uno spettacolo veramente bello e ricco di suggestioni, che proviene dal Festival di Glyndebourne. Lo firma Frederic Wake-Walker, che a Milano aveva allestito Le nozze di Figaro con risultati invero non dei più felici, mentre qui colpisce nel segno e aiuta a cogliere l’autentico spirito di questo dramma giocoso, una sorta di cartone preparatorio al successivo sviluppo della poetica operistica mozartiana nella ben nota trilogia dapontiana. Il filone sembra essere quello dell’opera buffa di derivazione goldoniana, con la compresenza, per i personaggi, di parti serie (Arminda e Ramiro), buffe (Podestà, Nardo e Serpetta) e di mezzo carattere (Sandrina e Belfiore); molti di essi intrisi della tinta tipica, quella larmoyante, che caratterizza tale registro e che, dalla Buona figliola di Goldoni e Piccinni in poi, influenzerà molto teatro musicale della seconda metà del Settecento.

Ma il genio di Mozart sublima il tutto. Perché se è vero che la convenzionalità dell’intreccio sembra non riservare particolari sorprese, la musica del genio salisburghese, con quella inconfondibile luce di bellezza e armonia che la caratterizza, regala splendide arie, capaci di cogliere l’evoluzione caratteriale dei personaggi nell’incertezza dei loro legami amorosi, dove la maschera dietro alla quale si celano certi comportamenti pian piano cade per svelare il sentimento che porta alla soluzione finale, quella che mira alla formazione delle coppie degli innamorati. Lo comprende bene il regista, che nel suo bellissimo spettacolo, giocando sulla commistione e sulla relazione fra amore e follia, fra titubanza di sentimenti e amore vero, attua un attento e scrupoloso lavoro sui personaggi, prima lasciati un po’ in balia dei loro tentennamenti, come burattini adolescenziali in cerca di un’identità sentimentale, poi poco per volta mostra le loro affinità relazionali, quelle capaci di farli maturare nella consapevolezza di essere coppia.

Così operando, chiede anche allo scenografo di costruire un impianto che lo aiuti in questo intento: un interno settecentesco, ispirato ad un luogo vero, il Castello di Nymphenburg, nelle vicinanze di Monaco di Baviera, con una stanza che poco per volta si sgretola e cade a pezzi mostrando ciò che c’è al di là degli stucchi dorati e delle porte-finestre di questo luogo di delizie barocche, ossia un giardino, un autunnale viale alberato verso il quale si guarda per ritrovare l’autenticità di se stessi dopo tanto peregrinare di dubbi amorosi; un approdo illuministico che porta con sé molta idealità e che saggiamente permette allo spettacolo, talvolta un po’ cervellotico e non sempre chiaro nello sviluppo della vicenda, di seguire un percorso visivo esteticamente mirabile, per la bellezza di scene e costumi di Antony McDonald e per la compenetrazione perfetta fra uomo e natura in quel percorso che conduce i personaggi, dopo tanti turbamenti e immaturità relazionali, a spazzar via equivoci e fraintendimenti amorosi per trovare finalmente i propri autentici sentimenti nella visione en plein air di un bosco.

All’intrigante bellezza e profondità significale dello spettacolo, veramente fra i più belli visti alla Scala negli ultimi tempi, corrisponde una direzione musicale, affidata da Diego Fasolis, che utilizza il suono “antico” dell’Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici e fa comprendere come brio, vivacità e sentimentalismo possano essere colti attraverso un discorso musicale asciutto, scorrevole e ritmicamente croccante, ben equilibrato nell’alternarsi fra temi giocosi e arie che invece scelgono la via della tragicità, pur essendo inserite nel contesto di un dramma giocoso, cogliendo sempre l’atmosfera del momento e, soprattutto, garantendo allo sviluppo della vicenda una teatralità senza zone d’ombra. Davvero una direzione ideale, che valorizza il palcoscenico, seppure sul palco i cantanti, tutti bravi e affiatati, non sempre appaiono vocalisti di rango.

I migliori sono sembrati la fresca e piccante Serpetta di Giulia Semenzato, cantante sempre più brava, e lo scatenato Nardo di Mattia Olivieri, davvero ispirato nell’aria in cui tenta di corteggiare l’amata che non lo corrisponde con i modi delle diverse lingue (all’italiana, alla francese e all’inglese) e in quella, “A forza di martelli”, in cui sembra già d’intravedere le esternazioni di Figaro in “Aprite un po’ quegli occhi” da Le nozze di Figaro e quelle di Guglielmo in “Donne mie” da Così fan tutte. Lucia Cirillo, Il Cavalier Ramiro, si disimpegna con onore nella parte, ma pagine magnifiche come “Dolce d’amor compagna” richiederebbero ben altra trasparenza e fascino sonoro, mancanti ad un timbro come il suo, poco sensuale. Gli altri interpreti sono tutti stranieri. Arminda, altro personaggio che ha la fisionomia caratteriale del serio, spesso drammatizzato con effetti esteriori ben evidenti a connotarlo, è Anett Fritsch, un po’ stridula nella bella e difficile aria d’ira “Vorrei punirti indegno”. Kresimir Spicer, Il Podestà, è un ottimo attore, ma un po’ sempre sopra le righe, anche per l’emissione alquanto rozza. I due personaggi di mezzo carattere, ai quali Mozart sembra regalare le attenzioni espressive maggiori, sono il Contino Belfiore e La Marchesa Violante, sotto il nome di Sandrina (ossia la finta giardiniera).

Il primo è affidato al tenore Bernard Richter, che delinea bene il personaggio, senza sdolcinature amorose, ma nelle sue arie, soprattutto nella bellissima serenata “Care pupille belle”, manca di reale abbandono, eleganza e trasparenza di suono, pur imponendosi per la varietà espressiva nei recitativi accompagnati; il secondo a Hanna-Elisabeth Müller, sul quale Mozart sperimenta nuove soluzioni per arie che vanno dalla tenera sentimentalità patetica di “Noi donne poverine”, alla nobiltà assorta di “Geme la tortorella”. Ma vi è poi la grande scena del secondo atto, dove diversi registri espressivi si alternano nella forma del recitativo accompagnato e dell’aria per far sì che il personaggio assuma quella dimensione tragica che lo rende il meglio definito dell’opera. Alla Müller non mancano musicalità e presenza scenica, ma le rigidità d’emissione certo non la aiutano e rendono la sua prova per lo più interlocutoria.

Dopo quasi tre ore e mezza di spettacolo, si lascia il teatro vieppiù convinti di quanto Mozart, che compose quest’opera per la corte di Massimiliano III di Baviera (andò in scena il 13 gennaio 1775) a soli diciotto anni, fosse già il genio che tutti conosciamo.

credit foto: Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

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