Dal Kurdistan alla Valsusa, la militanza di Ezel

 

Non è un’autobiografia. Non è un libro di poesie. Non è neppure il racconto dell’epopea di un popolo. Però c’è un po’ di tutto questo dentro a “Senza chiedere il permesso” di Ezel Alcu, giovane rifugiata curda che ha trovato asilo politico in Italia e una seconda vita in Valsusa.

Leggere brani del libro e sentire lei che ne parla è la stessa cosa, è sempre Ezel che si racconta, con il suo italiano immediato e diretto, che non segue le regole della grammatica perché è un linguaggio anarchico, come lei. Un italiano cucinato in salsa curda, insofferente degli articoli determinativi e delle desinenze che indicano un’identità di genere, perché nella cultura curda non c’è questa distinzione, nella grammatica come nella vita. Quella curda è infatti una società paritaria, non classista e autenticamente democratica, dove davvero è il popolo che decide. Un’utopia possibile, tanto che viene realizzata, giorno per giorno, fra persone di etnie, religioni e tradizioni diverse che trovano il modo di convivere mettendosi d’accordo sulle cose fondamentali, alla base di una società: libertà, parità di diritti fra uomo e donna, solidarietà e giustizia sociale, rispetto per il territorio e l’ambiente. Un popolo che riesce a essere nazione senza essere uno Stato, senza bisogno di burocrazie e gerarchie, in quel Kurdistan che vorrebbe esistere e che dovrebbe esistere, ma che accordi sovranazionali tengono lacerato da quattro confini, Siria, Iraq, Iran e Turchia.

È la realtà di questo popolo diviso che viene narrata nel libro di Ezel Alcu, filtrata attraverso la vicissitudini sue e della sua famiglia. Una famiglia solida e unita, nonostante un inizio improbabile, una sorta di fiaba al contrario, con un ragazzo di origini umili che si innamora di una ragazza ricca e che ha abbastanza coraggio per corteggiarla. Lei, fiera e autoritaria, accetta la corte, ma allo stesso tempo gli molla un ceffone “per fargli capire subito con chi aveva a che fare”, riferisce Ezel. Insieme, tirano su dieci figli, in quell’angolo di Turchia che i curdi rivendicano come territorio autonomo, incuranti della feroce repressione di Ankara.

Il padre è un oppositore politico, dunque il regime li perseguita, e gli “sbirri” – così li chiama Ezel – irrompono regolarmente a casa loro. Fino al giorno in cui Ezel, poco più che bambina, tira un sasso a un poliziotto, per tentare di difendere il fratello tratto in arresto. Un gesto che le costa il carcere, a tredici anni. Ma all’epoca in Turchia non esistono carceri minorili, e questa è la sua fortuna. Perché finisce in cella con le “compagne” del PKK, donne combattenti che la prendono sotto la loro protezione e le fanno scoprire le sue radici, risvegliando un indomito senso di appartenenza e indirizzandola all’attivismo e alla militanza.

Perseguitata dal regime, su iniziativa della famiglia cerca rifugio in Italia, dove ottiene lo status di rifugiato politico. Per lei, e per l’immaginario dei curdi, l’Italia è quella della Resistenza, dove i partigiani hanno costruito una nazione democratica, socialista, paritaria. Ma Ezel si accorge ben presto di essere un po’ in ritardo, una sessantina d’anni all’incirca, e si ritrova a vivere ad Aosta, fin troppo tranquilla e borghese per il suo temperamento combattivo. Finché un giorno il ragazzo che la ospita ritorna a casa con addosso l’odore dei lacrimogeni, inconfondibile per chi ha militato in decine di manifestazioni scontrandosi con gli sbirri.

È un punto di svolta: Ezel vuole sapere dove e cosa è successo. Scopre così che anche nell’apparentemente democratica Italia esiste una zona militarizzata, interdetta ai cittadini, dove regolarmente si svolgono manifestazioni di protesta e qualche volta si arriva anche allo scontro con gli sbirri. È la Valsusa, dove ormai da quasi trent’anni il Movimento NoTAV si oppone alla realizzazione di quella che viene definita “un’opera inutile e imposta”, una seconda linea ferroviaria fra Torino e Lione, che nelle intenzioni dei proponenti dovrebbe sostituire quella attuale, che in realtà funziona benissimo. Miliardi di soldi pubblici buttati per scavare un buco in una montagna, a fronte di un Paese che avrebbe ben altre urgenze – scuole fatiscenti, paesi terremotati, dissesto idrogeologico, incendi boschivi, inquinamento, ponti che crollano….- per le quali, però, i soldi sembrano non esserci mai.

Per Ezel è una rivelazione, le sembra di tornare a casa, a una vita di attivismo e militanza contro le imposizioni di un governo che, incapace di giustificare la necessità di una “Grande Opera” di tale portata – o meglio, senza la possibilità di farlo, visto che la necessità non c’è – porta avanti i lavori blindando il cantiere con esercito e polizia, uno spiegamento di forze e mezzi inaudito per proteggere un buco dentro una montagna (salvo poi lamentare la mancanza di fondi quando si tratta di combattere la criminalità e rendere più sicure le nostre città).

Qui la giovane ragazza curda ritrova la passione e la voglia di lottare per una causa ritenuta giusta contro un potere ritenuto oppressivo. Qui la sua personalità poliedrica ed esuberante ritrova pienezza. E qui scrive tutto questo per riversare ricordi, pensieri, emozioni, finché qualcuno, con insistenza, la convince a pubblicare tutto in un libro che lei non aveva mai pensato di scrivere. Un libro che, come si diceva all’inizio, sfugge a una classificazione precisa, anarchico nel formato come nel contenuto, a immagine e somiglianza di chi lo ha scritto, dove emergono anche sfaccettature impreviste e imprevedibili della complessa personalità dell’autrice. È come se nel libro “ci fossero non una, ma cento Ezel che convivono” scrive Zerocalcare nella prefazione del volume. Esattamente come le cento etnie, tradizioni e sfumature del popolo curdo convivono in comunità unite su territori separati, popolo senza stato, nazione senza territorio, patria senza bandiera.

Qualcosa di davvero rivoluzionario. Le dottrine anarchiche, socialiste, comuniste, realizzate e anzi superate in una convivenza quotidiana priva di demagogie, gli ideali depurati dalle ideologie, un’utopia vissuta come normalità. A ben vedere, più che per mantenere il controllo sulle risorse dei loro territori, forse è proprio questo il vero motivo per cui i curdi vengono repressi senza pietà: perché il loro modello potrebbe diventare un esempio che altri popoli e nazioni potrebbero voler seguire e mettere in pratica. Una cosa che i “padroni del mondo” non si possono permettere, perché vogliono mantenere il controllo su tutto. Naturalmente lasciandoci l’illusione della libertà, con un velo di democrazia e un’indigestione di consumismo. Purché non si esca dai binari, che siano quelli della “TAV” Torino-Lione o quelli dell’accordo Sykes-Picot, che un secolo fa smembrò il Kurdistan con confini imposti dalle potenze occidentali. Se ti ribelli alle decisioni dei potenti, ecco scattare la repressione, in Turchia come in Italia, fatte le debite proporzioni.

Ma questa libertà “condizionata” della società non può impedire alle persone di rimanere cuori liberi e magari anche ribelli, come Ezel, dal Kurdistan alla Valsusa. Liberi di inseguire ideali e costruire utopie, senza lasciarsi deviare dagli inganni del “potere”, mantenendo l’equilibrio fra pensiero critico e agire etico.

 

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