Imprese autogestite

La deindustrializzazione da tempo in atto nel Paese ha avuto un’impennata esponenziale a causa delle ricadute della grave crisi finanziaria dell’ultimo decennio, che ha seriamente minato la capacità produttiva delle nostre imprese. Molte non ce l’hanno fatta e hanno chiuso i battenti, molte altre hanno approfittato della situazione di crisi per delocalizzare all’estero e dare il benservito ai lavoratori, finiti da un giorno all’altro nel limbo della disoccupazione.

Ma qualcuno di questi lavoratori ha reagito, mettendo in atto una soluzione che non aveva precedenti nel nostro Paese, ma già ben sperimentata altrove, definita impropriamente con l’acronimo inglese “W.B.O.” (Workers Buyout). Impropriamente, perché in realtà le prime esperienze di questo tipo hanno visto la luce in Sudamerica, in particolare nell’Argentina devastata dalle politiche neoliberiste che hanno determinato il crollo di quella nazione potenzialmente ricca e prospera. In sostanza, i lavoratori non hanno subìto passivamente la chiusura dell’azienda e un destino da disoccupati, ma hanno rilevato l’impresa passando all’autogestione, assumendosi anche il ruolo di proprietari e dirigenti.

Sono le “imprese recuperate”, una realtà in crescita, una “rivoluzione silenziosa”, come la definiscono i suoi protagonisti, che ha consentito di reagire agli scossoni della crisi e al disimpegno della parte padronale mantenendo in vita l’attività e, conseguentemente, conservando i posti di lavoro. Con ricadute benefiche anche sul territorio, che ha evitato il declino connesso alle chiusure improvvise e alla conseguente contrazione che colpisce le economie locali.

Nello specifico, le imprese recuperate “rappresentano uno dei fenomeni di riscatto economico, sociale e culturale più promettenti e meno conosciuti del nostro paese dalla crisi economico-finanziaria a oggi” come afferma l’associazione Collettivo di Ricerca Sociale, che per sostenerle si è messa a disposizione gratuitamente “per la costruzione della prima Rete Italiana delle Imprese Recuperate al fine di costruire legami di mutualismo e solidarietà fra le imprese recuperate già esistenti sul territorio nazionale e di fornire alle aziende in crisi e a rischio di fallimento tutte le informazioni utili ad avviare il processo di recupero da parte dei lavoratori.” In primo luogo, le modalità per accedere ai fondi della “legge Marcora” del 1985 per finanziare le cooperative.

Gli esempi sono ormai numerosi: in Piemonte, possiamo citare la storica cartiera Pirinoli di Roccavione, fondata nel 1872, una lunga tradizione che aveva superato anche le difficoltà di due guerre mondiali, ma che stava per soccombere alla crisi attuale. I lavoratori, riuniti in cooperativa, ne hanno rilevato l’attività, rinnovandola con schemi di impresa innovativi: oggi la materia prima della produzione non è più la cellulosa proveniente dagli alberi, ma la carta e il cartone proveniente dalla nostra raccolta differenziata, convogliata al Comieco, che a sua volta la ridistribuisce come materia prima seconda. Un gesto semplice e civile dei cittadini trasforma quello che un tempo era rifiuto in risorsa, a questo si aggiunge la resilienza di lavoratori che ampliano la propria professionalità inglobando anche la parte imprenditoriale, e tutti ne traggono beneficio, con più occupazione, meno rifiuti e ricadute economiche condivise: un esempio vincente di economia circolare, il nuovo paradigma dello sviluppo che dovrebbe essere applicato in qualunque contesto produttivo. Un successo aiutato anche dal costante supporto delle amministrazioni locali e da referenti nazionali, a dimostrazione che la buona politica può fare molto per i cittadini.

Da Modena arriva invece la storia dell’Alfa Engineering, specializzata nella produzione di giunti isolanti monolitici per condotte di gas e petrolio. Il loro percorso è il paradigma delle crisi aziendali: cassa integrazione, lavoratori lasciati a casa o “ceduti” ad altre imprese, avvio di procedura fallimentare eccetera. Ma i dipendenti iniziano un processo condiviso e, investendo le proprie indennità, rilevano l’azienda con la formula “rent to buy”, l’affitto di strutture e macchinari con riscatto finale per acquisire la proprietà. Un percorso difficile per riconquistare un mercato già migrato sulla concorrenza e, soprattutto, per riguadagnare la fiducia di fornitori non pagati dalla precedente gestione fallimentare. Difficoltà superate saldando le fatture alla consegna e garantendo una produzione di elevata qualità, pezzi che non richiedono né manutenzione, né sostituzione, destinati esclusivamente all’export.

Sono solo due delle molte storie che si possono approfondire sul portale www.impreserecuperate.it, un supporto prezioso che potrebbe essere di ispirazione e utilità per le tante, troppe imprese a rischio chiusura o che hanno già dovuto abbassare le serrande, ma che ora possono contare su uno strumento in più, un sito dove avere informazioni pratiche, conoscere le esperienze e trovare l’aiuto di chi ha già deciso di reagire da protagonista alle sfide della crisi e della deindustrializzazione. E ha vinto.

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