Quello spazio necessario tra il Pd globalista e i populisti

La vittoria dei partiti “populisti” e “sovranisti” in Italia, parte di una ondata che ha coinvolto gli Stati Uniti e l’Europa, ha avuto l’effetto di compattare l’establishment globalista sul Partito Democratico. Strana, ma tutt’altro che sorprendente, la parabola del Pd nell’arco di appena un decennio: nato come partito a vocazione maggioritaria che si proponeva come la sintesi delle culture riformatrici del Paese (ma archiviando quella esperienza che tale sintesi l’aveva realizzata sul serio tra il popolo, l’Ulivo), ha finito per divenire la forza politica che più fedelmente declina la visione e gli interessi delle élite transnazionali a scapito di quelli dei lavoratori e della classe media. Non è un caso che al Pd appartengano la maggior parte degli amici riconosciuti come tali dalla Open Society dello speculatore George Soros, come pure la maggior parte dei politici che hanno ricoperto ruoli istituzionali di primissimo piano, insigniti del titolo della Legion d’Onore per i servigi resi a quella République che ha avversato tutto dove ha potuto gli interessi italiani, dalla Libia alle acquisizioni a prezzi di saldo di importanti asset strategici italiani.

Va pur riconosciuto che esistono ancora molte isole felici dove il Pd ha dato esempio di buon governo ed ha saputo dare rappresentanza a realtà sociali e interessi diffusi. Ma si tratta di situazioni locali che, purtroppo, non paiono più in grado di incidere sul profilo nazionale di quel partito che pare ormai essersi ridotto alla sezione italiana dei globalisti, a interlocutore privilegiato della parte più discutibile dei democratici americani, quella legata a Obama e ai Clinton, delle grandi banche d’affari abituate a macinare profitti sulle spalle del contribuente italiano, delle alte burocrazie dell’Ue e di una Merkel guardiana dell’ordoliberismo che sta provocando il collasso economico e sociale dell’Europa..

Dall’altra parte abbiamo due forze, Movimento Cinque Stelle e Lega indotte dallo stato di necessità a governare insieme, che in sostanza hanno fatto l’en plein dei consensi dei ceti medi e popolari che sono stati più colpiti dalla crisi. Tali forze rappresentano un elettorato in prevalenza mobile, instabile. Ma se non si costruiscono alternative valide, il consenso a Salvini e Di Maio potenzialmente può salire oltre al 60%, che all’incirca corrisponde a quei due terzi di ceti sociali che avvertono difficoltà a causa della crisi e delle risposte errate che le sono state date dal Pd.

Esiste uno spazio politico praticabile per quelle forze che per cultura e tradizione fanno riferimento ai principali filoni riformisti del Paese, tra i quali quello cattolico-democratico, ma che non si riconoscono (più) nelle politiche del Pd? A mio avviso sì, tale spazio non solo esiste ma risulta necessario per la democrazia. Ai partiti cosiddetti “antisistema” va riconosciuto il merito di aver rivitalizzato le istituzioni, impedendo che la fascia della popolazione più disillusa, che è la maggioranza assoluta del corpo elettorale, disertasse le urne. Ma la vita democratica necessita di uno schieramento alternativo a tali forze, che non può più essere il Partito Democratico, che è espressione del mondo di prima che non tornerà più.

Una proposta politica distinta dai “populisti”, deve avvenire nel nuovo frame, nella nuova cornice interpretativa scolpita nelle urne il 4 marzo scorso. Vanno riconosciuti i problemi posti dagli elettori, anziché dare loro risposte sommarie o addirittura colpevolizzanti e infamanti. Al posto della deformazione iperbolica delle loro istanze, che esprime derisione e disprezzo profondo per il popolo, vanno date risposte concrete di merito ispirate a una strategia di cambiamento. Criticare l’austerità non è essere euroscettici, chiedere più attenzione per le situazioni di degrado di certe periferie non è xenofobia, denunciare lo sfruttamento selvaggio di manodopera straniera sottopagata non è razzismo semmai l’esatto contrario, riconoscere che la Russia non è una minaccia bensì un partner strategico, non è venir meno alla solidarietà euro-atlantica ma puro buon senso.

Ma soprattutto va ristabilito un dato basilare: che non si possono fare politiche socialmente avanzate, di cui l’Italia ha urgentemente bisogno, se non si è keynesiani. Il monetarismo della Bce e l’ordoliberismo a cui i tedeschi hanno condannato l’eurozona impediscono alla radice politiche di sviluppo economico, di riduzione delle disuguaglianze che anzi generano, insieme a una stagnazione economica senza prospettive di ripresa. Senza il ristabilimento del ruolo della banca centrale, auspicabilmente a livello europeo, come prestatore di ultima istanza, il debito pubblico continuerà a essere un fardelllo, che dopo averne stremate le popolazioni, condurrà i Paesi mediterranei a decretare la fine della moneta comune.

Il Pd sta dalla parte della speculazione finanziaria e dei poteri forti, l’attuale maggioranza gialloverde cavalca lo scontento popolare: in mezzo, o meglio sopra, serve una forza rassicurante sui valori e sugli obiettivi fondamentali, capace di fare proprie, anziché demonizzare, le istanze e le indicazioni popolari con cui costruire un progetto in grado di competere con quanti sono dalla parte del cambiamento, sulla base di un saldo ancoraggio alla democrazia, alla solidarietà, al primato della Costituzione italiana.

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