Il sogno spezzato di Robert Kennedy

Dopo la vittoria alle primarie in California, stava per ottenere la nomination del Partito democratico per la Casa Bianca, con buone probabilità di vincere le presidenziali del novembre successivo. Fu però ucciso quella stessa sera, appena sceso dal palco, da un attentatore sbucato d’improvviso tra la folla che applaudiva. Era il 6 giugno 1968 e stiamo parlando di Robert Kennedy, assassinato mezzo secolo fa in circostanze ancora non del tutto chiarite. Quegli spari furono la fine di un sogno durato troppo poco. Quello di un nuovo slancio popolare che stava suscitando in America entusiasmi non dissimili da quelli che in contemporanea stava regalando la Primavera di Praga. Anch’essa finita troppo presto.

Robert F. Kennedy, classe 1925, ministro della Giustizia quando suo fratello John era presidente, nella seconda metà degli anni Sessanta rappresentò l’anima progressista di un’America scossa dalla contestazione giovanile, attraversata dagli scontri razziali e segnata dalla guerra del Vietnam. Divenne il leader, quasi naturale, di un ampio schieramento che traeva la propria forza negli strati popolari, nelle classi lavoratrici, tra le minoranze razziali. Era il loro simbolo, capace – come nessun altro in quel momento – di dar voce ad un Paese diverso da quello dell’establishment, fosse democratico o repubblicano. Al suo confronto Lyndon Johnson, presidente democratico in carica, o Richard Nixon, principale capo dell’opposizione repubblicana (che conquistò la Casa Bianca proprio quell’anno), parevano due facce della stessa medaglia. Quella di una classe dirigente per molti versi staccata dalla larga maggioranza della popolazione, sorda ai suoi richiami, lontana dai suoi bisogni e dalle sue aspirazioni. Kennedy pur appartenendo ad una della famiglie più influenti degli Stati Uniti, emblema stesso del potere e della ricchezza, veniva percepito come estraneo a quella che oggi verrebbe chiamata casta.

Una sensazione che egli diede di sé già quando, da titolare della Giustizia, si batteva contro le infiltrazioni della criminalità nel sindacato e che, dopo l’assassinio del fratello a Dallas, seppe fornire in modo ancora più marcato e veritiero. Dopo aver abbandonato qualsiasi incarico nell’amministrazione Johnson, iniziò a girare il Paese per sondarne gli umori e costruire una piattaforma alternativa a quella propugnata dai due grandi partiti. Oggi qualcuno lo taccerebbe di populismo. Di certo seppe farsi portabandiera dell’America più povera e dimenticata, senza facili demagogie o false promesse, ma elaborando un grande progetto riformatore ed inclusivo, per una società più giusta e prospera per tutti.

Voleva realizzare un ampio blocco sociale che dal mondo del lavoro si allargasse al ceto medio, parlando all’intera nazione e non ad una classe soltanto. Un progetto unitario con precise basi ideali e culturali, in grado di rovesciare schemi e luoghi comuni. E così cominciò a spiegare che il Pil non poteva essere l’unico strumento per misurare la ricchezza e il benessere di uno Stato o che il conflitto in Vietnam, stava rendendo più deboli, e non più forti, gli Stati Uniti.

Discorsi che facevano breccia tra la gente, restituendo speranze soprattutto a quelle fasce di popolazione che neanche andavano a votare. Discorsi che dovrebbero tornare – al netto delle differenze tra la società di oggi e quella di mezzo secolo fa – ad essere parte dell’agenda riformista dei prossimi anni. Perché è proprio da un credibile riformismo che – in un’epoca segnata prima dalla smania liberista e adesso dalla demagogia sovranista – si può ripartire in nome dell’integrazione europea, di un welfare che protegga le persone e di una nuova dignità del mondo del lavoro.

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