Una nave ideale per “Il Corsaro”

Il raro titolo verdiano in scena al Teatro Municipale di Piacenza.

Si è ormai “sdoganata” l’idea che non esista un Verdi minore, ma che ogni sua opera, anche fra quelle appartenenti a cosiddetti “anni di galera”, abbia elementi di interesse degni di essere approfonditi senza più udir tuonare certa musicologia a sfavore di opere come Il Corsaro. Risentirla al Teatro Municipale di Piacenza, dove il titolo è andato in scena a conclusione di una stagione lirica fra le più ricche e riuscite degli ultimi anni – per i quali meriti si deve un grazie alla passione e alla competenza della direttrice artistica, Cristina Ferrari – è servito a comprendere come, ad onta della sommarietà drammaturgica del libretto di Francesco Maria Piave, tratto dall’omonimo poemetto di Lord George Byron, che nei primi anni del Risorgimento ebbe grande fortuna e diffusione in Italia in improbabili traduzioni, quest’opera evidenzi negli inconfondibili tratti del giovane stile compositivo verdiano una capacità di vestire le schematiche e convenzionali situazioni del libretto e le sostanziale elementarietà dei caratteri con una musica di incalzante stringatezza ed efficacia.

I contrasti ritmici, la forza scatenante del cabalettismo più concitato e l’involo lirico che pare uscito da Bellini o Donizetti, sono elementi che destano l’interesse dell’ascoltatore. L’idealità del tormentato eroe byroniano, dannato come ogni figura romantica che si comandi, seppur mortificato delle situazioni spezzate e discontinue del libretto del Piave, garantiscono lo sviluppo di un discorso teatrale a respiro corto, attraverso il quale Verdi gioca carte musicali certo non trascurabili. A coglierle al meglio provvede un nocchiero musicale che è da individuare fra i punti di forza di questa felice produzione piacentina. Matteo Beltrami, infatti, alla testa dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna e del Coro del Teatro Municipale di Reggio Emilia, ben istruito da Corrado Casati, ben se ne guarda dal perseguire una verdianità di solo impeto. Ciò detto, non fa mancare mordente alle cabalette e sceglie tempi sostanzialmente rapidi ed incalzanti, ma soprattutto ha un controllo perfetto del palcoscenico, respira con le voci e le sostiene al meglio in una cantabilità morbida ed elegante, fuori dai più scontati cliché di un primo Verdi che, grazie alla sua direzione, sceglie appunto la via dell’approfondimento strumentale denso di significati espressivi.

Ovviamente questo avvantaggia una compagnia di canto che raduna, al di là dei risultati raggiunti, elementi di sicuro interesse. Il giovane tenore peruviano Iván Ayón Rivas è un Corrado di tutto rispetto. La voce corre facile ed è pure timbricamente interessante e sonora. Nell’aria d’ingresso del primo atto, “Tutto parea sorridere”, riesce anche ad essere modulata e piegata alle ragioni di un canto non tutto di fibra, anche se la tendenza e spingere si accentua qua e là nel corso dell’opera, forse per un eccesso di generosità insito alla sua natura vocale, fino ad una scena della prigione, nel terzo atto, ben risolta nonostante qualche squilibrio d’emissione. Ciò detto, è chiaro che si è dinanzi ad un giovane di valore che, qualora scelga la via di rinunciare al canto sfogato a favore di un maggiore approfondimento della linea, potrebbe trovare una quadratura vocale ideale per mantenere le promesse di una brillante carriera.

Meno interessante sembra la voce del soprano Roberta Mantegna, alle prese con una vocalità, quella di Gulnara, nervosa ed aggressiva, con i vigorosi scatti della cabaletta del secondo atto e con agilità di impatto drammatico che mettono a nudo un timbro adenoideo, non privo di forzature ed acidità nel settore acuto. La musicalità la sostiene sempre, ma è evidente che questo ruolo la mette, in più punti, alle strette.

La naturale morbidezza dello strumento e la bellezza del timbro continuano ad essere le carte vincenti del baritono Simone Piazzola, che tuttavia in questa occasione, nei panni di Seid, ha mostrato una voce appannata, al di sotto dei suoi abituali standard. Difficile dire se questo sia solo indice di una stanchezza passeggera, ma è certo che quando la voce riesce, nelle espansioni liriche, ad avere la meglio, si dimenticano alcuni suoni non del tutto a fuoco e certe note acute un po’ avventurose.

Una nota di merito va a Serena Gamberoni, che nei panni di Medora è chiamata a cantare l’aria forse più bella e nota dell’opera, “Non so le tetre immagini”, che intona con bella linea vocale e piena consapevolezza espressiva, eppure senza l’alito della poesia estatica che questa pagina richiede. Funzionali, nei ruoli di contorno, Matteo Mezzaro, Selimo, Cristian Saitta, Giovanni e Raffaele Feo, Un Eunuco/Uno Schiavo. Lo spettacolo di Lamberto Puggelli, ripreso da Grazia Pulvirenti Puggelli, con scene di Marco Capuana e costumi di Vera Marzot, vuole essere un omaggio al regista scomparso nel 2013, che pensò questo allestimento nel 2004 per il Teatro Regio di Parma.

Ancora oggi funziona a meraviglia e nasce dall’idea, non scontata, di colmare pieni e vuoti della scena con lo scogliere e l’ammainare delle vele sul ponte di una nave ideale, luogo dove si sviluppa ogni quadro dell’opera, fra combattimenti d’armi di corsari e musulmani (magistralmente gestiti dal maestro d’armi Renzo Musumeci Greco), richiami salgariani nei costumi e una selva di funi che legano il corpo del corsaro imprigionato e poi sono allegoria delle passioni che agitano Corrado e Gulnara nel loro incontro del terzo atto, fino al finale, dove la nudità della scena sigla lo strazio del Corsaro e la sua scelta di suicidarsi buttandosi in mare. “Una grande metafora architettonica del mare che impregna la vicenda”, come ebbe a scrivere il regista scomparso, che rende lo spettacolo ancora moderno, abile nel dar efficace anima drammatica allo spazio scenico. Recita domenicale pomeridiana del 6 maggio stracolma di pubblico, accolta con successo senza macchia. Ed è così che Piacenza diventa modello di come si deve far opera, con serietà e passione; quella vera, che il pubblico riconosce e premia.

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