“Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro alla Scala

Nuovo allestimento di David Pountney e grande direzione di Fabio Luisi, ma il cast lascia perplessi.

Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai mancava alla Scala dal 1959. L’ultima volta con protagonista Magda Olivero, che ne fece un’icona del suo essere diva assoluta. Dopo di lei, fra le grandi che hanno contributo ad una certa presenza del titolo in repertorio, è venuta Raina Kabaivanska, fra l’altro presente in sala alla prima scaligera del 15 aprile, e poche altre elette che hanno compreso come arte interpretativa e voce debbano andare necessariamente a braccetto e siano imprescindibili per essere una grande Francesca. Partitura davvero singolare, su libretto di Gabriele D’Annnunzio, oggi poco eseguita ma ancora mirabile per presa teatrale, Francesca da Rimini associa una retorica decadentista dalle tinte veriste al gusto liberty che musicalmente non è solo puro decorativismo, perché ricco di una sintassi musicale di respiro europeo, con richiami al leitmotiv wagneriano, ad echi straussiani e a tinte debussyane, tali da renderla un magma sonoro enfatico e di infuocata energia bellica, come pure di abbandoni frementi ad un sentimentalismo amoroso tratteggiato con raffinati arabeschi sensualeggianti.   

È un’opera dunque non facile Francesca da Rimini, né per il direttore d’orchestra, né per gli interpreti, e tanto meno per chi ne firma la messa in scena. La Scala si è affidata al nuovo allestimento di David Pountney, con scene di Leslie Travers e costumi di Marie-Jeanne Lecca, a suo modo efficace, talvolta anche monumentale, che convince più nei momenti truci e sanguinari della battaglia del secondo atto, o nelle scene di violenza e gelosia. Ma quando il falso medioevalismo del testo d’annunziano richiede sensualità e passionalità, lo spettacolo sembra afflosciarsi su sé stesso. La scelta scenografica, ben chiara, è di ambientare l’opera in epoca dannunziana, ai tempi del primo conflitto mondiale, ma in maniera simbolica più che realistica.

Così il secondo atto, con l’imponente struttura metallica che si chiude a semicerchio ed ospita sui suoi spalti il coro che si prepara alla battaglia, ha il suo apice quando giganteschi cannoni vengono puntati e addirittura sparano al culmine dell’infuriare del tumulto bellico. Il primo atto invece, mostra una grande stanza bianca con un gigantesco busto littorio di donna a seno nudo che viene poi trafitto dalle lance. È simbolo della grazia e della innocenza femminile contrapposta alla brutalità degli uomini. Negli altri atti appare anche un aereo biplano che pare precipitato sulla scena dopo la battaglia. Sul lato sinistro della scena, per l’incontro fra i due cognati, troneggia un grande libro aperto con le pagine miniate della leggenda di Lancillotto e Ginevra.

Ad eccezione di qualche bel momento, come l’incantata immagine cavalleresca dell’arrivo di Paolo su uno sfavillante cavallo d’oro al termine del primo atto, quando la melodia espansa e soavemente soffusa commenta il primo incontro, l’attrazione muta fra i futuri amanti e la consegna della rosa, accentuando così la visione idealizzata che Francesca ha dell’amore cortese, lo spettacolo cade invece nel trabocchetto di un simbolismo che, forse per evitare di eccedere nel verismo più bieco, sacrifica nel finale dell’opera l’uccisione in presa diretta dei due amanti per mano di Gianciotto e preferisce che una lancia-pugnale scenda dall’alto per trafiggerli sul loro talamo. E qui è come se il regista intenda smorzare il lato passionale della vicenda, memore forse di quando Zandonai stesso scrisse a proposito della protagonista, facendo intendere come la sua sensualità viva nell’indefinibile estasi decadente calata in una dimensione misteriosa, attraversata da un’ansia che la avvolge nell’incomunicabilità e trasforma la sua carnalità in assorti turbamenti ed in un qualcosa di sognato più che realmente vissuto. Fabio Luisi, da splendido concertatore di una partitura della quale esalta le migliori caratteristiche, coglie nel declamato musicale drammatico a tinte forti il rapido incalzare, a tratti violento e trucido, ma anche le ghirlande di suono che utilizzano, nell’impiego di timbri arcaici, la cantabilità espansa soavemente effusa di un’orchestra accorta per ricchezza cromatica, rifinita in mille dettagli, timbri e colori, accentuandone la valenza novecentesca.

Una direzione sulla quale si regge il peso di uno spettacolo che diversamente lascerebbe alquanto a desiderare per una protagonista, Maria José Siri, che non solo non possiede l’allure della diva e il fascino della prima donna assoluta, ma neanche la voce – di bell’impasto, ma in difficoltà nel cogliere con sottile finezza espressiva i languori estetizzanti e i fremiti stilizzati richiesti – trova la giusta dimensione fra slanci amorosi ed enfasi declamatoria richiesta per la scena della battaglia del secondo atto. Gli estremi acuti non sono del tutto a fuoco, ma soprattutto la tinta tragica, ora assorta e sognante, ora carnale e sensuale, non fanno parte né della sua voce, né della sua spenta personalità interpretativa. Il tenore Marcelo Puente ha invece tutte le carte in regola per essere un Paolo il Bello che domina la scena per il fascino della figura, alla quale però non corrisponde voce parimenti soddisfacente. Si sforza di essere flessibile nell’intonare il temibile “Inghirlandata di violette”, ma spesso manda “indietro” i suoni e sembra reggere a fatica il peso di una parte che lo costringe a non pochi compromessi vocali.

Perfetto invece il Gianciotto Malatesta truce e vocalmente stentoreo quanto basta di Gabriele Viviani, brutale e bieco nella sortita del secondo atto e amaramente disilluso nel duetto con Malatestino, quando apprende dell’adulterio della moglie Francesca: pagina dai connotati drammatici accesi e vibranti, non meno di quella che precedentemente vede il tentativo di violenza che Malatestino, un bravissimo Luciano Ganci, insinuante e carico della velenosa perfidia che il personaggio richiede, tenta nei confronti di Francesca, da lei sdegnosamente respinto.

Il cast è ben assortito nei ruoli di contorno, con Alisa Kolosova, Samaritana, Costantino Finucci, Ostasio, Matteo Desole, Ser Toldo, Elia Fabbian, Il Giullare, Idunnu MünchSmaragdi, Hun Kim, Il Balestriere/Un prigioniero e Lasha Sesitashvili, Il Torrigiano. Infine le donne di Francesca: Sara Rossini, Biancofiore, Valentina Boi, Gersenda, Diana Haller, Altichiara e Alessia Nadin, Adonella. Successo finale per tutti ed ovazioni per Luisi. Si replica fino al 13 maggio.

Credit photo: Brescia & Amisano – Teatro alla Scala.

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