Martin Luther King, a 50 anni dalla morte

Cinquanta anni fa, il 4 aprile 1968 a Memphis, nel Tennessee, veniva assassinato, a soli 39 anni, Martin Luther King, indiscusso leader nella lotta per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti. A sparargli un bianco razzista, James Earl Ray, mentre King era affacciato al balcone di un hotel. Mai è stato ben chiarito –  in questo come in altri misteri americani –  se si sia trattato di un gesto isolato o di un complotto. Di certo King aveva molti nemici, annidati in particolar modo nell’estrema destra razzista, ma non era particolarmente amato neanche negli ambienti del radicalismo afroamericano che ne rimproverava la moderazione.

In effetti King, apostolo della non violenza e della fratellanza tra bianchi e neri, scelse di condurre in modo pacifico una delle più belle e straordinarie battaglie che la società americana ricordi: l’affermazione dei diritti civili dei neri. Una vicenda che ci fa tornare agli anni Cinquanta, quando un muro silenzioso divideva bianchi e neri, con scuole, ospedali, ristoranti per i primi, rigorosamente separati da quelli per i secondi, tra umiliazioni e sopraffazioni. Poi a Birmingham in Alabama nel dicembre 1955 scoccò la scintilla che fece cambiare l’America, quando una donna nera, Rosa Parks, rifiutò di cedere il suo posto su un bus ad un bianco, come era normalmente in uso. I neri iniziarono il boicottaggio degli autobus cittadini e a guidare la lotta si distinse un fino ad allora sconosciuto Martin Luther King.

Da quel momento il suo nome riempì le prime pagine dei giornali, perché di li a poco cominciarono le manifestazioni per ottenere parità di diritti, nel rispetto di quanto sancito dai Padri fondatori dell’Unione. Negli stati del Sud continuava ad allignare la segregazione razziale, tra linciaggi e violenze di ogni genere. Per fare entrare due studenti neri all’Università di Little Rock, in Arkansas, il presidente Dwight Eisenhower dovette mandare l’esercito federale e lo stesso fece, qualche anno dopo, John F.Kennedy in Alabama.

Nell’agosto del 1963 si svolse a Washington una grande marcia, al termine della quale King pronunciò il suo discorso più famoso “Ho un sogno…”. Pochi giorni dopo, un attentato dinamitardo contro una chiesa di Birmingham uccise quattro bambine afroamericane. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, mostrando quanto fosse ormai drammatica la situazione.

Toccò al neo presidente Lyndon Johnson approvare la legge sui diritti civili. <<Con questa firma – ebbe a dire – abbiamo regalato gli Stati del sud ai repubblicani per almeno una generazione>>. E così accadde. Nel 1964 Martin Luther King ricevette il premio Nobel per la pace e l’anno successivo vi fu la grande marcia di Selma per il diritto di voto. Eppure, nonostante i passi avanti sul piano legislativo l’America continuava ad essere segnata dalla discriminazione. La denuncia di King si intrecciò con l’opposizione alla guerra del Vietnam: <<è immorale – disse – che giovani neri vengano mandati a morire dall’altra parte del mondo per una libertà che non trovano a casa propria, nelle città americane dove vivono>>.

A cinquanta anni di distanza e dopo la presidenza di un afroamericano, cosa assolutamente inimmaginabile a quel tempo, l’America resta ancora divisa. Neri e bianchi hanno speranze di vita diverse, vivono spesso in realtà diverse, con sperequazioni di reddito, di istruzione e di accesso alle cure sanitarie che ancora oggi segnano il Paese. Per di più, con l’arrivo di Donald Trump, il suprematismo bianco, dopo decenni di silenzio, torna a rialzare la testa. Eppure quella magnifica stagione che vide protagonista Martin Luther King non può essere dimenticata. Resta molto da fare, ma i primi più importanti passi sono stati compiuti grazie a lui: a quel pastore protestante, epigono di una fratellanza universale, ucciso mezzo secolo fa.

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