Pasqua di sangue a Gaza

La vergogna di aver perso la vergogna, così papa Francesco ammonisce l’umanità nel discorso del Venerdì Santo. E il suo rimprovero cade in un giorno nuovamente infausto per un conflitto che sembra non trovare fine. Ancora una volta, palestinesi e israeliani si sono fronteggiati, lungo i confini della tormentata Striscia di Gaza. Ancora una volta, la disparità di forze in campo era palese. Ancora una volta, i palestinesi hanno messo in campo una protesta inutile e controproducente. E, ancora una volta, Israele ha sparato su dei ragazzi inermi, causando almeno 16 morti e oltre un migliaio di feriti.

In teoria, avrebbe dovuto essere una manifestazione pacifica, ma in quei territori raramente le cose filano lisce, specie se ci sono di mezzo da un lato Hamas, l’organizzazione islamista che controlla la Striscia, e dall’altro l’esercito con la Stella di David, un simbolo biblico che oggi suona come paradosso. Perché David, come si ricorderà, era il giovane ebreo che, armato solo della sua fionda, osò sfidare il gigante Golia, riuscendo ad abbatterlo con il lancio preciso di una pietra. Oggi a lanciare pietre sono i ragazzi palestinesi, ma il Golia israeliano che si maschera dietro il simbolo di David è protetto da muri e mezzi blindati, e le pietrate palestinesi non lo scalfiscono nemmeno. In compenso, i cecchini israeliani hanno gioco facile a impiombare i manifestanti palestinesi, agnelli sacrificali armati solo di rabbia e di voglia di martirio, ideologia deviata presente in tanta, troppa parte dell’islam.

Il bagno di sangue è avvenuto in occasione della ‘Marcia del Ritorno’, la protesta indetta da Hamas per rivendicare il possesso delle terre confiscate ai palestinesi nel 1948, quando venne proclamato lo Stato di Israele. A distanza di 70 anni, i discendenti dei civili espropriati non rinunciano al tentativo di rientrare in possesso dei terreni e delle proprietà finite sotto il dominio blindato di Israele, che le ha occupate con i propri coloni e non ha alcuna intenzione di restituirle. È una ferita antica, ma mai sanata, che periodicamente versa sangue, nell’indifferenza, nell’ignavia o addirittura con la complicità della “comunità internazionale”, che non riesce, non vuole o non può porre fine a questa ingiustizia causa di conflitti ricorrenti intervallati da periodi di tensione latente.

Tutto questo senza che nessuno provi, appunto, vergogna. Non prova vergogna Israele, che ha occupato il 90% dei territori che, secondo l’accordo delle Nazioni Unite del 1947, avrebbero dovuto costituire lo Stato di Palestina. Accordo peraltro all’epoca respinto dalle nazioni arabe, che a loro volta non provano vergogna per aver abbandonato i “fratelli” palestinesi al loro destino. E non provano vergogna nemmeno i vertici di Hamas, la formazione politica imbevuta di islam radicale che dovrebbe governare la Striscia di Gaza: “dovrebbe”, appunto, mentre quello rimane un territorio devastato, dove le nuove generazioni crescono senza speranza di futuro, a dispetto dei cospicui aiuti internazionali, che finiscono chissà dove, volatilizzati fra sprechi e corruzione. La popolazione ne ha piena coscienza e accusa senza mezzi termini i propri vertici di corruzione, sia l’Anp in Cisgiordania che Hamas a Gaza.

Niente di meglio allora che focalizzare la legittima rabbia e insoddisfazione della popolazione, specie dei giovani, contro Israele, il nemico di sempre. Addebitando tutte le colpe del loro malessere al governo di Tel Aviv (che pure di responsabilità ne ha molte, ma non proprio tutte) ed esaltando la retorica del martirio per mandarli allo sbaraglio, ad affrontare proiettili e mezzi blindati.

Dal canto suo, Israele sfrutta politicamente e mediaticamente questi scontri per atteggiarsi a vittima, a paese sotto assedio, a isola di democrazia circondata dal mare del fanatismo. Ma Israele non è più questo. Lo era ai tempi della guerra del Kippur, quando le autoritarie nazioni arabe volevano cancellarlo dalla faccia della terra e lo attaccavano anche proditoriamente, mentre la comunità internazionale lo difendeva incondizionatamente. Oggi non è più così: Israele ha occupato territori non di sua competenza, in spregio a innumerevoli risoluzioni e moniti dell’Onu, roba che se l’avesse fatta qualunque altro Paese di quell’area strategica sarebbe stato “punito” in tempo zero, basta vedere come andarono le cose quando Saddam invase il Kuwait.

I territori occupati, sottratti al controllo palestinese, sono stati poi “colonizzati” con insediamenti abitativi blindati, che frantumano a macchia di leopardo la Cisgiordania, spezzando la continuità territoriale delle aree teoricamente appannaggio dell’Autorità palestinese. E dove invece la continuità territoriale è presente, come a Gaza, si mette in atto uno strangolamento economico, impedendo lo sviluppo di attività produttive radicate. Il resto lo fanno l’incapacità, la corruzione e il fanatismo delle élite palestinesi, che sembrano molto più impegnate a fomentare l’odio verso Israele che a garantire un po’ di pace e benessere al proprio popolo.

Intanto, il mondo sta a guardare. L’unico che si è mosso è Trump, ma solo per peggiorare la situazione: il suo annuncio di voler trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme ha spostato l’ago della bilancia ancor più dalla parte di Israele, che certo ora si sente ulteriormente libero di usare la forza coi palestinesi. Lo dimostrano dichiarazioni come quella del generale israeliano Eyal Zamir, secondo il quale l’esercito ha sparato perché ha “identificato alcuni terroristi che cercavano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti”. Affermazione strumentale, provocatoria e al limite del ridicolo: in realtà hanno sparato su una folla certamente ostile, forse radicalizzata, sicuramente strumentalizzata, ma sostanzialmente disarmata: gli unici spari sono arrivati da parte israeliana. Omicidi mascherati da lotta al terrorismo che potrebbero essere l’inizio di una nuova ondata di violenza in quella tormentata zona del Vicino Oriente.

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