Trump, epurazioni alla Casa Bianca

 

Negli Stati uniti prosegue la presidenza a colpi d’ascia che sta caratterizzando il mandato di Donald Trump. L’ultimo fendente si è abbattuto su Rex Tillerson, il segretario di Stato, licenziato dal presidente pochi giorni fa, per telefono, mentre si trovava in missione all’estero. Una modalità irrituale, che somiglia più alle prassi in uso nell’assai poco tutelato mercato del lavoro statunitense che a una divergenza istituzionale. Ovvero, Trump, il magnate approdato alla Casa Bianca grazie a una campagna elettorale aggressiva e sopra le righe, come prevedibile continua sulla stessa linea anche nel corso della sua presidenza, comportandosi più da “boss” di un’azienda che da capo di Stato. Un atteggiamento decisamente  più simile alla prepotenza che alla risolutezza, messo in campo forse anche per mascherare l’inadeguatezza e l’impreparazione a ricoprire un ruolo di tale portata, come per altro evidenziato dallo stesso Trump, quando dichiarò inopinatamente «pensavo che fare il presidente fosse più facile».

Che fra l’inquilino della Casa Bianca e il suo segretario di Stato non corresse buon sangue era già balzato all’occhio in varie occasioni, con evidenti frizioni a causa di differenze di vedute su questioni non secondarie di politica estera: in particolare riguardo all’accordo sul nucleare iraniano, raggiunto dopo lungo e accurato lavoro diplomatico e che ora Trump vorrebbe cancellare in nome di una visione fortemente ideologizzata dello scacchiere mediorientale. Di diverso parere Tillerson, che cercava di difendere l’accordo ottenuto dopo anni di trattative e più in generale pareva impegnato a rappezzare gli strappi causati dall’avventatezza e dalle fughe in avanti del presidente, non solo nei confronti degli avversari strategici, ma anche degli stessi alleati. Disaccordo fra i due è emerso anche nei giorni scorsi, quando Tillerson non ha esitato a manifestare la propria solidarietà alla premier britannica Theresa May, impegnata in un duro confronto con la Russia a seguito dell’attentato col gas nervino compiuto su suolo inglese ai danni di un ex agente segreto dissidente e di sua figlia, che ha coinvolto anche un poliziotto intervenuto a soccorrerli. Al contrario, Trump ha mostrato un atteggiamento più defilato, evitando di puntare il dito contro Mosca quale mandante dell’attentato. Il che, per un presidente sul quale pende la spada di Damocle del cosiddetto Russiagate, ovvero il sospetto che la sua elezione sia stata viziata da interferenze del Cremlino, non è un gran bel segnale.

Sta di fatto che Trump si è sbrigativamente sbarazzato di Tillerson, sostituendolo con Mike Pompeo, attuale direttore della CIA, al cui posto verrà nominata Gina Haspel, prima donna a guidare la potente agenzia di spionaggio Usa. Si passa dunque da un responsabile degli affari esteri di formazione aziendale ( Tillerson aveva ricoperto incarichi di vertice nel colosso petrolifero Exxon Mobile), che lasciava forse intravedere una visione mercantilista dei rapporti fra nazioni, a un uomo che proviene direttamente dai servizi segreti, con la nomea di “falco” rispetto al predecessore che veniva classificato come “colomba”. A questo punto sorgono spontanei un interrogativo e alcune considerazioni. L’interrogativo è: quale concezione ha Donald Trump dei rapporti fra Stati sovrani, visto che ha chiamato a gestirli prima un manager e poi una spia?

È probabile –prima considerazione- che per lui la diplomazia sia un qualcosa di inutile e noioso, perché visto che l’America è più forte deve semplicemente imporsi, senza perder tempo in discussioni. È in quest’ottica che ha deciso di adottare pesanti dazi su alcuni prodotti d’importazione, infischiandosene degli accordi internazionali sul commercio che –per quanto possano essere discutibili- sono ancora in vigore. Ed è sempre per questo motivo che cerca di imporre la politica dei confronti bilaterali, dove gli Usa possono far valere maggiormente la propria preponderanza nei confronti di qualunque nazione singola, atteggiamento che gli Stati europei dovrebbero contrastare con una maggiore compattezza dell’Unione, sul piano politico ancor prima che su quello commerciale.

Altra considerazione: Trump amministra il suo esecutivo come fosse la sua azienda, defenestrando chiunque non sia perfettamente allineato con lui e non si adegui prontamente alle contorsioni della sua linea politica, dove i cambi di strategia coincidono con i suoi cambi d’umore. Chi obietta, tergiversa o peggio ancora dimostra di ragionare con la propria testa riceve il benservito con il classico “You are fired!”, sei licenziato. Una sorte che, prima di Tillerson, hanno conosciuto altri elementi di rilievo legati a questa amministrazione, a partire da Sally Yates, ministro della giustizia ad interim, silurata dopo appena 11 giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca. A seguire Michael Flynn, consigliere alla sicurezza nazionale; James Comey, direttore Fbi, seguito a ruota pochi mesi dopo dal suo vice Andrew Mc Cabe; Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca; Steve Bannon, lo stratega dell’inarrestabile ascesa di Trump e svariati altri. In taluni casi si trattava di avversari, ma più spesso di persone del suo stesso staff, quindi teoricamente in sintonia col presidente, ma forse non abbastanza. Nella sua furia di buttar fuori chiunque non sia perfettamente allineato con lui, Trump rischia forse di segare il ramo su cui è seduto?

Fra epurazioni, scandali e discutibili strategie interne ed estere, la presidenza Trump prosegue verso quell’appuntamento ineludibile che sono le elezioni di mid term, previste a inizio novembre per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato. Sarà quello il momento cruciale in cui si potrà verificare se le politiche e gli atteggiamenti del magnate arrivato alla Casa Bianca continuino a incontrare i favori della maggioranza degli americani.

 

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