Qualche limite per le Regioni

Le elezioni regionali potrebbero rappresentare un’ottima occasione di confronto sui problemi del Paese e su come superare l’attuale delicato periodo in cui l’impatto della crisi si fa sentire in misura via via maggiore su una cospicua fascia di lavoratori (disoccupazione all’8,5% a dicembre), sulla produzione di ricchezza (- 5,1% del Pil nel 2009 secondo l’Istat), sulle esportazioni (- 21,4% nel 2009 rispetto all’anno precedente, sempre secondo l’Istat).

E mentre il rinvigorirsi delle manovre speculative contro il debito pubblico di alcuni Paesi dell’area Euro (per quanto possa sembrare incredibile, finanziate con le stesse risorse che gli stati hanno erogato ad alcune banche d’affari per salvarle dal loro fallimento), dopo aver preso di mira la Grecia potrebbe riguardare anche il nostro Paese, il dibattito politico in questa campagna elettorale pare invece consumarsi in schermaglie procedurali nelle quali una parte dimostra una grande approssimazione (dis)organizzativa e una svalutazione dei regolamenti per la presentazione delle liste e l’altra parte rischia di non essere del tutto immune dalla tentazione di prevalere sugli avversari per via amministrativa, anziché per la via maestra della politica.

Di fronte alla crisi avremmo bisogno di un sistema politico che premia la coesione fra le forze politiche o che, almeno, le solleciti al confronto sui reali problemi del Paese. Invece ci ritroviamo con un sistema solo artificialmente “bipolare” in cui al momento del voto ci si contende tutto il potere anche solo con un voto in più dello schieramento avversario, e per il resto della legislatura si delega agli esecutivi e ai presidenti l’iniziativa politica. In tal modo viene meno lo stimolo alla convergenza oppure alla definizione di un programma alternativo nei contenuti e non solo nelle alleanze. Inoltre, l’imprudente sistema elettorale di elezione diretta e personale (con possibilità di voto disgiunto dagli schieramenti) del presidente di regione consolida una tendenza al “presidenzialismo” che poi risulta molto difficile da frenare a livello di scelta del sistema di governo per il Paese e pone problemi seri di coerenza a chi si dichiara favorevole all’elezione diretta dei presidenti di regione e contrario alla repubblica presidenziale.

Le Regioni, nate per dare attuazione al decentramento dei poteri in una logica di sussidiarietà che avrebbe dovuto sancire la centralità dei corpi intermedi, dei vari soggetti sociali, quindi dei comuni, e per quel che i municipi non riescono a fare da soli, delle Province, si sono ben presto trasformate, in non pochi casi, in un avido e non sempre efficiente moltiplicatore del centralismo statale, specie nel settore in cui detengono le maggiori competenze ed amministrano le maggiori risorse, quello della sanità. Le Regioni avrebbero dovuto essere principalmente istituzioni con specifica funzione legislativa territoriale, ed invece vi si sono incagliati compiti di gestione amministrativa spettanti ai livelli di governo più vicini al cittadino.

E non va trascurato neppure il fatto che ad ogni nuova competenza acquisita dalle Regioni, specie dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che riflette una forte sudditanza culturale al leghismo, non sia corrisposto un trasferimento del relativo gettito tributario, in modo che il “federalismo” ormai viene vissuto con un certo terrore dai lavoratori, dalle famiglie, dalle imprese, perché di fatto implica, per ogni nuova “competenza” l’imposizione di imposte aggiuntive agli immutati costi dello Stato centrale.

E più l’apparato istituzionale si ingrossa a livello locale, più crescono le clientele, le scelte discrezionali, ma non ne guadagna certo la credibilità della politica, come dimostrano molte recenti cronache giudiziarie. Addirittura, il neo-centralismo regionale contribuisce allo sfaldamento dei partiti – o di ciò che ne resta in questa “seconda repubblica” –  in spezzoni regionali, sempre meno controllabili dai livelli nazionali e rispondenti a gerarchie ed equilibri di potere locali che traggono la loro ragion d’essere più dalla spartizione politico-affaristica territoriale che da valutazioni più generali di ordine politico.

Tutto ciò potrebbe rivelarsi molto pericoloso per la democrazia se non addirittura un giorno anche per l’unità del Paese. Di certo non è utile nel presente ad una amministrazione più efficiente e più vicina ai cittadini. Forse, dopo l’ “ubriacatura” regionalista di questi anni è giunto il tempo di riscoprire il municipalismo sturziano e di rilanciarne i capisaldi e l’impostazione culturale, prendendo spunto dall’Appello “ai liberi e forti” del 1919, che rivela una sorprendente attualità su questi temi: «Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell’Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale».

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